Il narratore conclude più cose con gli occhi che con i movimenti delle stelle, stando in basso e attaccato alla terra, in quegli appezzamenti di territorio diviso “in tre regioni e quattro province in meno di dieci chilometri”: opera di buontemponi avvezzi alla burocrazia e non tanto alla dinamica tettonica e fluviale. Il narratore è Davide Bregola, amante di gesti terreni, e di monologhi colmi di risoluto amore verso le pianure che si stendono da Mantova a Ferrara, allargandosi verso Modena per ritornare verso Ostiglia e Sermide: tutti luoghi cantati e “osservati speciali” da parte di gente come D’Annunzio, Carducci, Bevilacqua, Mozzi, Celati. Avventurosi sguardi lungo argini come serpenti e erbe colorate in cui bighellonare con quel po’ di vino offerto nelle soste. Roba che perfino Manganelli vi si struscia con un certo e fievole desiderio ben sapendo che quelli sono spazi dove sembra lecito il parlottio con gli spiriti dei morti soliti frequentare, a detta di Zavattini, le acque e le frequenti cascatelle. Le campagne parlano, scrive Bregola, anche con voci passate o oltremodo lontane, e tra bassi fondali e ristagni di nebbione s’ascoltano rumori futuri e grida di soldati risucchiati da antiche (non tanto, in verità) guerre.
Le cose della Pianura sono tutte qui, nei quattordici racconti che compongono l’ultima parte di una trilogia comprendente La vita segreta dei mammut in Pianura Padana e Fossili e storioni, notizie dalla casa galleggiante: dinamiche e ilarità a ogni pagina, ricordi e oscillazioni di tempo cronologico e atmosferico che convocano o costruiscono discorsi “naturali” là dove la natura è protagonista ma al punto di non essere più garantita. Le parole sono sempre quelle di una lingua circolare e circolante, ritrovata figura tra le figure, del tutto corporale e non soltanto frammento di mondo. Questa è letteratura che sta nel giusto mezzo fra risorsa dilettevole e linguaggio capace di decifrare senza essere pretenzioso. Qui si partecipa, in qualsivoglia svolta di strada, a ogni possibile mezzo dell’arte, fantastico e mitologia si mischiano alla messe di coincidenze naturali, così come sono da secoli e forse millenni.
E allora non sono più frammenti di mondo, come altrove, ma zone definite dove finalmente ritrovarsi, grazie alla scrittura, mondati dall’attuale pigrizia intellettuale coltivata non si sa più se da autori, editori o lettori. Vero è che il canone conosciuto in decenni ben più vivaci e folti ora è scomparso così come la maggior parte del dibattito critico. Bregola allestisce lo spettacolo di un panorama precursore, ne fa “macchina narrativa” emozionale, così come i suoi spettacoli di burattini tolgono di mezzo il digitale mostrando gli ingranaggi a ragazzini entusiasti. E adulti (ma sarà poi vero?) a cui la gravità dei tempi stanca e confonde, e allora benedette le valli del Po, i paesini dove l’amoreggiamento non è più folklore ma l’antico modo di conciliarsi fra genti e acque e campi dove il dialogo è sempre stato più congeniale, producendo letteratura reale su pezzetti di realtà atavica.
Tante le figure, in quel panorama, chiamate a raccolta in un Teatro scavalcante argini ben conosciuti e si fa largo fra nomi, soprannomi e tutto quello che viene portato a casa dopo la visita a sagre e giostre, compresi i nomi dati alle cose, dispersi e ritrovati da chi fa ancora racconti, e li mette nei sussidiari della vita: roba che rinverdisce i colori dell’esistenza. In pochi luoghi d’Italia si conosce altrettanto bene il gioco delle giornate “scritte” seguendo strade brevi, bituminose o polverose, ma sempre odorose di natura e scarti gettati da umani e altrettante parole umane con tutti i loro alfabeti.