David Thomson / La guerra sugli schermi

David Thomson, La fatale alleanza. Un secolo di guerre al cinema, tr. di Ludovica Marani, Jimenez Edizioni, pp. 485, euro 24,00 stampa

Può la guerra essere considerata un gioco? Perché ci affascina al punto da non poter smettere di guardarla? Su queste domande ruota il libro di David Thomson. Cinema e guerra, dunque, due “passioni” umane che l’autore, apprezzato critico, passa al vaglio del suo occhio analitico, ripercorrendo un secolo di combattimenti rappresentati sul grande schermo nel tentativo di descrivere “la dinamica d’infatuazione cinematografica per la battaglia”. Guerra e battaglia, però, non sono la medesima cosa: la prima “è un male che risiede nella natura e nella società, l’espressione profonda della nostra paura”; la battaglia, invece, “aspira al brivido e all’avventura, come andare al cinema, credendo di poter gestire la paura”. Thomson parte dal 1914, quando il conflitto mondiale e il cinema, in una simultanea esplosione, “vennero alla luce nello stesso boato di cambiamento”. Dunque, un viaggio nell’immaginario dei migliori film di guerra mai realizzati, attraverso un percorso storico. Con un’avvertenza: “Se permettessimo ai film di farci da libri di storia, ripeteremmo solo i film”.

Il volume è diviso in quattro sezioni: Mobilitazione, Ostilità, La guerra giusta, Disturbo post-traumatico da stress. La prima origina dalla considerazione che nella nostra percezione la guerra è diventata un gioco; la seconda si sofferma sul fatto che “lo sport della guerra” si è trasformato in un’industria, dove la tecnologia ha soppiantato l’etica professionale; il terzo sulla propaganda della “guerra giusta” veicolata da molti film; l’ultima riflette sullo stato di “guerra climatica”, cioè endemica, in cui viviamo. Con prosa chiara e accattivante, l’autore pone interrogativi scomodi, che riflettono paradossi: siamo sempre accompagnati dal terrore di conflitti catastrofici, eppure non ci saziamo mai di guerra. La fame è tale che ha esondato l’universo cinematografico, prendendo possesso dei videogiochi, ostilità “da divano” che consumano i grilletti a suon di morti, facendo sembrare la guerra e le vittime reali inconsistenti e obsolete, in una messinscena che anestetizza e oblia una realtà che devasta il mondo.

La schiera di film (non soltanto bellici) passati in rassegna è considerevole, sempre contestualizzati al momento in cui sono stati prodotti e alle esigenze cui andavano incontro; per citarne qualcuno, in ordine sparso: Charlot soldato, La grande parata (“uno spettacolo talmente grandioso da convincere il pubblico e i proprietari dei cinema che la guerra era destinata al successo”), Orizzonti di gloria, Oh, che bella guerra, 1917 (“film d’avventura”, dov’è evidente il pericolo “che il cinema possa prendere il sopravvento sulla storia”), L’ufficiale e la spia, Caccia a Ottobre rosso, I duellanti, Black Hawk Down (come tutti i film bellici di Ridley Scott, “punto di riferimento non soltanto al botteghino, ma anche come guida per digerire la storia”), Gli anni spezzati, La grande illusione (“favola a cui ci siamo tutti aggrappati”), Salvate il soldato Ryan, I quattro cavalieri dell’Apocalisse (che segnò l’esordio di Rodolfo Valentino), le tre versioni di All’Ovest niente di nuovo, La vita e niente altro (“uno dei film di guerra migliori e più originali mai realizzati”), L’ora più buia, Dunkirk (tra le “interpretazioni storiche più fuorvianti”, “banco di prova per lo splendore del cinema in procinto di diventare vacante e decadente”), Le quattro piume, La carica dei Seicento (che contiene scene “che meritano di entrare nel pantheon”), Apocalypse Now, La sottile linea rossa.

L’analisi non è però circoscritta al cinema: qui troverete la storia di Hiram Maxim, l’inventore della mitragliatrice Maschinengewehr 08 (la MG 08, “altrettanto strumentale nella cultura quanto il telefono o il gabinetto”); della fotocamera Brownie della Kodak e del caccia monoposto Spitfire; dell’Imperial War Museum britannico, con le sue presentazioni immersive dagli straordinari effetti di proiezione che riproducono l’esperienza delle trincee della Grande Guerra (affrontata con dovizia nel libro) e del blitz del 1940, “veri e propri film viventi”; un’attenta disamina di They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani di Peter Jackson (il regista de Il signore degli anelli), documentario che “potrebbe eclissare o svergognare centinaia di altre narrazioni cinematografiche ben intenzionate”. Non si tralascia la pittura di guerra (Gassed di John Singer Sargent, Guernica di Picasso e il cubismo), il giornalismo e le sue faziosità, la letteratura, introdotta da un seminale interrogativo: “La guerra non è sempre stata un terreno fertile per la poesia, come se la creatività fosse stimolata dalla paura?”. Compaiono così riferimenti a scrittori che l’hanno tematizzata e brani di loro libri: Mailer, Hemingway, Swift, Remarque, Ford Madox Ford, James Jones (l’autore di Da qui all’eternità e de La sottile linea rossa), Zweig, Evelyn Waugh, Heller, la poesia di Wilfred Owen e di Tennyson, Henry Williamson, Robert Graves, Dos Passos col suo 1919, “un connubio abbagliante di realtà e finzione, prosa e cinema”, Virginia Woolf, il cui Mrs. Dalloway è “uno dei romanzi più perspicaci mai scritti sotto l’influenza della Grande Guerra”. Né manca una riflessione sui documentari commissionati durante il Secondo conflitto mondiale dal Dipartimento della guerra degli Stati Uniti a celebri registi (Frank Capra, John Ford) per spiegare al pubblico e alle truppe perché la guerra andava combattuta, momento in cui il cinema diventò “un sistema d’arma ormai incontenibile”.

Tale ricchezza espositiva si spiega con l’approccio epistemologico dell’autore, che considera il cinema quale luogo culturale, pratica, linguaggio e modo di pensare, soffermandosi sulla differenza tra realtà e finzione, sull’incapacità dell’essere contemporaneo di distinguere queste categorie. Quadro vieppiù complicato dalle continue falsificazioni del reale, anche ad opera di reportage e riprese giornalistiche, finzioni create per scopi propagandistici. Insomma, non possiamo fidarci di ciò che vediamo, anche perché “la raffinatezza del cinema ha umiliato e ingannato le nostre tragedie”. La nostra cultura è “annoiata” dalla facilità di fabbricazione di immagini reali: da documento, la fotografia è divenuta “un’affermazione infondata”, i sotterfugi tecnologici hanno fatto “retrocedere la moralità del reale”. In soldoni, chi controlla i media si è impossessato dei diritti sulla storia.

Tra i pregi di questo studio v’è il coinvolgimento dell’autore, un approccio viscerale, da puro spettatore, che precede e prepara quello critico, modalità che avvicina molto il lettore, al quale Thompson si rivolge non ex cathedra ma a tu per tu, con domande dirette. Al di là delle prese di posizione, emerge da queste pagine un sentore di onestà intellettuale, la volontà di mettersi in gioco senza mascherarsi dietro metodologie accademiche. In definitiva, questo non è un semplice libro sul cinema di guerra: è un inno alla comprensione della mente umana, all’accettazione dei suoi buchi neri. E la conclusione è inevitabile: la guerra rappresentata sugli schermi è il nostro gioco prediletto.