“Baciare Marilyn Monroe è come baciare Adolf Hitler”
(Tony Curtis intervistato sul set di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder)
“Pesa solo 50 kili, ma 45 sono di cazzo”
(Ava Gardner parlando di Frank Sinatra)
Se Kenneth Anger, cineasta sperimentale e praticante della Magick di Aleister Crowley, aveva voluto divulgare con humour nero e notevole cinismo, in due celeberrimi volumi, le depravazioni e i delitti perpetrati nella Babilonia di Hollywood, David Thomson, forse il maggiore critico cinematografico di lingua inglese vivente, si propone invece, più bonariamente, in questo suo libro piuttosto imponente di tracciare una, per quanto possibile, obbiettiva storia di Hollywood, cercando di identificare la formula perfetta, cioè la proporzione ottimale tra business e arte che determini il modello del film ideale. Thomson, nato a Londra ma da decenni residente negli Stati Uniti, pur innamorato del cinema europeo, resta profondamente soggetto al fascino incantato della grande macchina produttiva del cinema commerciale americano.
Il parallelo poi con l’Hollywood Babilonia di Anger è in ogni caso approssimativo ed ellittico: Thomson pratica la critica non l’aneddotica, la cronaca e non il pettegolezzo. Inoltre, a differenza di Anger, guarda più con tenerezza che con disincanto alle contraddizioni della dorata mecca dei sogni di celluloide: prima di distruggere preferisce comprendere. Per questo i suoi riferimenti costanti non sono tratti dai tabloid scandalistici ma piuttosto dai classici letterari statunitensi, più volte citati nel corso del testo: sono Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon), l’ultimo romanzo incompiuto del 1941 di Francis Scott Fitzgerald e Il giorno della locusta (The Day of the Locust) di Nathanael West del 1939, le testimonianze più attendibili – severe, talvolta spietate ma non per questo meno irretite nella seduzione – da parte di letterati che per anni misero il loro talento al servizio dell’industria hollywoodiana, ne ricavarono lusinghe e delusioni per esserne doviziosamente nutriti e infine bruciati.
Proprio dal libro di Fitzgerald è tratto il concetto di formula perfetta (the whole equation come suona in originale) e dai personaggi principali del romanzo Thomson prende spunto per ripercorrere i destini paralleli e conflittuali delle figure reali a cui questi sono ispirati: Irving G. Thalberg, David O. Selznick e Louis B. Mayer, rispettivamente direttore artistico, direttore di produzione e capo carismatico della Metro Goldwyn Meyer. Tutti immigrati di origini ebraiche, bielorusse, lituane e tedesche, confluiti in California, che distillano molteplici e multiformi possibilità e declinazioni della formula perfetta. Attraverso di loro Thomson tratteggia un tortuoso e coinvolgente percorso. L’espansione della città di Los Angeles, circondata dal deserto e l’importanza fondamentale del controllo sull’erogazione dell’acqua: si parte proprio da Chinatown, l’epocale film di Roman Polansky, e dalla sceneggiatura di Robert Towne, che avrebbe dovuto finire, nelle intenzioni dello scrittore, meno tragicamente di come, per fortuna, volle il grande regista polacco: l’immunità e la vittoria finale di Noah Cross, omicida, monopolista e padre incestuoso (il trionfo inarrestabile del mondo dominato dal potere e dalla corruzione) trasposizione finzionale del magnate William Mulholland, artefice della città degli angeli: “Lascia stare, Jake, è Chinatown”. Poi la nascita di Hollywood e la storia delle celeberrime letterone bianche sulla collina che la identificano, il passaggio dai primigenei nickelodeon alle sale cinematografiche e l’esplosione conseguente di una nuova industria dell’intrattenimento.
Le carriere fortunate o fallimentari – o più spesso entrambe le cose – del patriarca David Wark Griffith, sgradevole razzista ma inventore della grammatica cinematografica: inquadratura/parola, scena/frase, sequenza/paragrafo, e del montaggio narrativo, analitico/alternato/parallelo; di Eric Von Stroheim o di Charlie Chaplin, primi indiscussi geni e praticanti della formula perfetta, l’uno destinato alla perdizione, l’altro all’apoteosi; di film capitali come Birth of a Nation, Greed, Via col vento, Casablanca, Quarto potere, Viale del tramonto, Psycho, e più avanti Il padrino e Apocalypse Now, ecc.; di autori geniali e, alla lunga, perdenti come Preston Sturges e Frank Capra, o antitetici espatriati mitteleuropei come il “simpatico” Billy Wilder e l’ “antipatico” Fritz Lang; di dive morte in circostanze tragiche e premature come Jean Harlow, ritirate in tempo come Greta Garbo o ben mummificate come Bette Davis, Joan Crawford o Barbara Stanwyck. E ancora oltre, lungo i corsi e i ricorsi del tempo: dalla “caccia alle streghe” del maccarthismo – con gli episodi paralleli del coerente Dalton Trumbo, dell’indeciso Humphrey Bogart, e dell’infame Elia Kazan – alla “nuova Hollywood” inaugurata da Gangster Story nel 1967 e conchiusa dall’avvento di Steven Spielberg e George Lucas alla metà degli anni ’70; fino all’ordinaria amministrazione degli anni seguenti intorno al 2000.
Un periplo completo alla ricerca della formula perfetta, sempre trovata e sempre perduta. Il libro è vecchio, questo va puntualizzato, uscì negli USA nel 2004, e tradotto vent’anni dopo, gran parte delle analisi – molto dettagliate – che individuano le cause della crisi creativa ed economica dell’industria cinematografica hollywoodiana, evidenziate nel rapporto con la televisione e il mercato dei VHS e dei DVD, appaiono, lette oggi, terribilmente datate e ormai fuori fuoco. A parte questi evidenti difetti che rendono faticosi e inutili alcuni capitoli, la lettura resta comunque, per gran parte del testo, quanto mai stimolante e fascinosa.