Gli appassionati di letteratura crime sanno bene cosa aspettarsi: temi cruenti (violenza, corruzione, vendetta), indagini avventurose e irte di pericoli, atmosfere fosche e crepuscolari, linguaggio realistico e icastico, dialoghi cinematografici, personaggi iconici, ambientazioni cupe in città postmoderne o in paesaggi rurali devastati da un “progresso” incontrollato. Insomma, una catabasi che si rinnova a ogni nuova storia. Il nuovo romanzo di David Joy ha tutte queste caratteristiche, e anche molto di più. Joy è narratore di razza, e il suo libro si è aggiudicato il Dashiell Hammett Award for Literary Excellence in Crime Writing, premio annuale al miglior romanzo crime di Stati Uniti e Canada.
In capitoli brevi, tratteggiati con incisivo realismo e prosa asciutta, ma carica del dettaglio impressionistico, erede di una lunga tradizione letteraria, l’autore mette in scena una vicenda corale, livida e stigia, ambientata nella sua terra d’origine, l’ampio territorio occidentale della Carolina del Nord al confine con il Tennesse, tra maestosi boschi e montagne che attraversano le aree tribali degli indiani Cherokee, oggi squallide riserve devastate dalla droga e dal venefico contatto con l’uomo bianco. Come il Kansas di Chris Hoffutt, il midwest di Barry Gifford o gli stati montani e meridionali dei tanti scrittori che ambientano le loro storie nella sterminata provincia americana, la regione geografica e culturale è autentica protagonista: cittadine deturpate dalla speculazione edilizia e finanziaria, dalla scomparsa di antiche tradizioni e del sistema di valori che le strutturava, una natura vivificante stoltamente distrutta dalla rapacità umana, luoghi isteriliti in cui gli abitanti si trascinano in esistenze insensate, deprivati di qualsiasi orientamento morale.
In questo allucinato scenario di disastro sociale e interiore, dominato dalla figura reale e metaforica dell’incendio, tre personaggi provano disperatamente a rimanere avvinti al codice etico nel quale sono cresciuti, poiché “un uomo ha bisogno di qualcosa di costante, qualcosa di immutabile, a cui potersi aggrappare quando il mondo va a rotoli”: Ray, guardia forestale in pensione, testimone d’un rapido e silenzioso genocidio culturale (“aveva visto la gente e la cultura della montagna venire quasi estirpate nell’arco di pochi decenni”), che prova a salvare il figlio dalle paludi della droga, presenza pervasiva del romanzo; il giovane indiano Danny Rattler, ladruncolo tossico moralmente integro, segnato da un incidente sul lavoro e in cerca di riscatto; Ron Holland, agente della Dea che ha sacrificato la vita al contrasto della criminalità imperante: tre uomini uniti dal destino nel disperato tentativo di “dare un senso al mondo”.
Attorno a questo trittico – un padre, un tossico, un uomo di legge –, circondato da figure tratteggiate con sapido mestiere, si dipana la classica storia di vendetta e riconciliazione, di azione e di scelte morali laceranti e indifferibili, di lotta senza quartiere tra concetto di legalità e illegalità, della ricerca d’una qualche forma di giustizia e della ricomposizione di un ordine infranto. Il risultato è un romanzo feroce, dal ritmo incalzante, denso di scene apocalittiche e di riferimenti all’attualità politica (vi è evocato anche “l’uomo dai capelli arancioni” che aveva propugnato “quella stronzata di costruire il muro”), ritratto di un’umanità colta sul punto del tracollo, costretta a confrontarsi con una realtà ineludibile: “Le nostre vite sono la somma di tutte le scelte che abbiamo fatto. Cosa sarebbe il mondo senza le conseguenze?”