Viviamo dentro a una simulazione? Filosofi diversi in epoche diverse si sono posti più o meno la stessa domanda. Per scopi teoretici spesso contrastanti – per affermare il dubbio metodico o, piuttosto, validare una metafisica idealistica – la caverna di Platone, il Genio di Cartesio, l’Esse est percipi del vescovo Berkeley costituiscono forse gli esempi più noti nel pensiero occidentale. Ai nostri giorni una star della filosofia come David J. Chalmers, filosofo, cognitivista e condirettore del Centro per la mente, il cervello e la coscienza presso la New York University, si pone la stessa domanda invece da tecnofilo, utilizzando repertori digitali (games, multiverso, realtà virtuali) più familiari ai suoi contemporanei.
In fisica le ipotesi it-from-bit, termine coniato dal fisico teorico John Archibald Wheeler – postulano che l’informazione realizzi il livello conosciuto degli atomi e dei quark un po’ come la fisica “realizza” la chimica e la chimica a sua volta “realizza” la biologia. I bit – o più in generale un piano di realtà descrivibile matematicamente in termini di differenze e non di materia – costituirebbero la base sottostante cioè “it”, la “cosa”, la realtà descritta dalla fisica einsteniana e dalla meccanica quantistica. Gli automi cellulari di Stephen Wolfram rappresentano un esempio di questi modelli formali. Va detto che le ipotesi it-from-bit non godono attualmente di grande popolarità nel mondo scientifico, tanto più che una simulazione perfetta, che replicasse in modo perfettamente indistinguibile il mondo che comunemente riteniamo di esperire, non sarebbe in sé neppure un’ipotesi falsificabile o scientifica. Non di meno, osserva Chalmers, resterebbe un’ipotesi filosofica speculativamente interessante, tanto quanto una simulazione imperfetta, cioè verificabile, rilevando ad esempio una smagliatura incongruente nella trama osservabile del reale.
Chalmers distingue anche le simulazioni “pure”, che comprendono internamente sia il mondo oggettuale che l’osservatore antropico, da quelle “impure”, dove il soggetto agisce invece all’interno della simulazione consapevole che il suo cervello risiede invece più o meno comodamente in un mondo esterno. Le realtà virtuali odierne o il mondo di Matrix (un film che attirò già venti anni fa la riflessione di Chalmers*) appartengono a questo secondo tipo e configurano in qualche misura un dualismo “cartesiano”, con possibili paradossi metafisici. Nel film delle Wachowski, ad esempio, come si concilia il cervello virtuale di Neo, collegato al corpo virtuale che nella simulazione affronta acrobaticamente l’agente Smith, con quello biologico, intubato ma risvegliato grazie alla red pill? Quale dei due “comanda”? Sono sincronizzati? Il dualismo del resto potrebbe risultare l’ontologia più ragionevole anche se assumiamo per un attimo il punto di vista di un AI che incontriamo dentro una simulazione virtual live “realistica” o di un NPC (Non Player Character) di un videogioco, agenti artificiali a tutt’oggi oggi lontani anni luce dalla complessità comportamentale di un essere umano: dalla loro angolatura la logica della fisica con cui interagiscono trova riscontro immediato nel mondo virtuale in cui è stata implementata mentre la logica psicologica che li fa agire risiederebbe nell’altrove di un server esterno. Le realtà virtuali – o quello che ne seguirà – presuppongono infatti il libero arbitrio e non vanno neppure confuse con l’ipotesi del “cervello in una vasca”, cioè con un bagno di piacere edonistico pre-programmato, una “macchina dell’esperienza” ma non una “macchina della realtà”.
L’ipotesi di una simulazione it-from-bit “pura”, che comprenda il soggetto oltre alla fisica degli oggetti virtuali, apre d’altro canto al tema del suo creatore, situato in un mondo esterno, cioè al problema di una plausibile teologia e, in ultima analisi, di una possibile e illimitata catena di mondi it-from-bit-from-it. Ma soprattutto pone il tema cognitivo della coscienza, il “problema difficile”, secondo la fortunata definizione che ha consacrato alla fama Chalmers (che ci scherza sopra), rimasto tale, cioè “difficile” e sfuggente, almeno rispetto a quelli relativamente più “facili” e maneggevoli come l’intelligenza, anche un quarto di secolo dopo. La coscienza, come esperienza soggettiva, può essere riprodotta da una copia digitale dei nostri neuroni (secondo l’ipotesi dell’“upload dell’anima”)? O occorrerebbe spingersi più in basso, e duplicare la realtà fisica a livello subatomico, per evitare che un quark di troppo annulli la coscienza trasformando il soggetto in uno zombi? Chalmers si mostra possibilista ma si tratta tutto sommato di convenevoli e risulta sicuramente più convincente quando spiega che il taccuino o il computer non sono uno strumento ma un’estensione e una protesi della mente. In una delle ultime sezioni del libro (“Valori”) si sposta sul terreno morale e sulla possibilità di vivere una “vita buona”, indagata dal punto di vista dell’utilitarismo benthamiano come dell’etica comunitaria (“diventiamo persone grazie ad altre persone”).
In generale, il volume offre una fantastica introduzione ai temi della metafisica occidentale, consigliabile per studenti del triennio come per il grande pubblico interessato alla filosofia: Più realtà è un testo accattivante e pop – con una pletora di riferimenti alla science fiction, da Black Mirror a Charles Stross – che si apprezza in primo luogo per la limpida struttura argomentativa tipica della filosofia analitica. Chalmers, come ribadisce a più riprese, non afferma affatto che viviamo in una simulazione ma, come chiarisce già nel titolo, è convinto che sviluppando questa ipotesi si possa ricavare un’idea meno ingenua e più articolata di cosa sia la “realtà”, fisica o virtuale, in cui viviamo. A differenza di Bostrom, che sulla base di un ragionamento probabilistico, stante lo sviluppo delle tecnologie digitali, ritiene presumibile che ci troviamo in una simulazione, il filosofo australiano si mantiene sul piano strettamente speculativo. D’altro canto il Metaverso, qui richiamato anche attraverso l’excursus storico dell’Intelligenza Artificiale e delle VR, a differenza del Genio malefico di Cartesio, si presenta oggi con un ovvio carico di hype e di attualità. Tutt’altro che una semplice metafora, risulta nel traslato più atto a promuovere l’ipotesi di Bostrom che a metterla in discussione attraverso un “dubbio metodico”. E sul filo di questa sottile distinzione sembra correre fino all’ultimo anche la dissertazione di Chalmers.
*David J. Chalmers, The Matrix as Metaphysics, Department of Philosophy University of Arizona Tucson