Un mosaico nel fantastico

David Demchuk, Madre delle Ossa, tr. Claudia Durastanti, Zona 42, pp. 256, euro 15,10 stampa, euro 6,99 epub

Una raccolta di ritratti, istantanee scattate dal fotografo romeno Costicá Acsinte tra il 1935 e il 1945 e custodite nel Museo di Storia del Distretto di Ialomita: uomini, donne, vecchi e bambini congelati in riquadri patinati di antico: come in uno Spoon River da incubo – uno Spoon River di persone vive e di immagini morte – le figure si animano e prendono la parola, raccontando la loro storia, ognuno con la propria voce narrante che sembra identica a quella di ogni altro, distaccata e impersonale, come quella di una divinità impassibile o della natura che assiste con la stessa indifferenza a eventi tragici o felici per un’umanità che è solo una comparsa tra le tante. È proprio questo tono, solenne, quasi salmodiante, mai coinvolto pur nella giostra di casi umani che ci viene presentata, a contribuire più di tutto all’effetto di straniamento che questo falso romanzo produce.

Falso romanzo: perché è tenue il filo che lega le storie che, come quelle immagini alle quali sono ispirate, si compongono e scompongono tra loro, a creare un’atmosfera arcana di bellezza spaventosa e incomprensibile. Ma tutto è già lì, nelle immagini, e così il primo tassello di questo libro-mosaico, la storia di Borys, mostra due uomini che si assomigliano, gli zigomi larghi dei lineamenti slavi, vestiti a festa, lo sguardo solenne che fissa l’obiettivo, e in mezzo a loro un bouquet di rose. Il racconto riprende il tempo senza tempo dell’istantanea e lo precipita nell’atmosfera allucinata che Madre delle ossa costruisce con pochi tocchi sapienti: “Io e mio fratello Sergyi ci siamo sposati con una piccola cerimonia nella chiesa del nostro villaggio”.

Due fratelli sposi, e uno che, rimasto vedovo dell’altro, racconta la sua storia. Un villaggio di un altrove incerto, immaginario, che si tinge nei nomi, nei costumi e nelle mitologie di connotati est-europei, ma che richiama anche altri contesti, costruisce un mondo alternativo, a sé stante. Molti di questi capitoli sono pure visioni, sganciate da ogni contesto reale o realistico, fiabe nere (“favole dalla cadenza ipnotica” le definisce il comitato del Sunburst Award, premio canadese per la letteratura fantastica che nel 2018 è stato aggiudicato a quest’opera) sospese sul filo di una società arcaica, contadina, sulla quale incombono forze oscure, incarnate in una fabbrica enigmatica in cui si celebrano riti sinistri, mentre la civiltà, e con essa il senso di appartenenza a un mondo noto e rassicurante, aleggia sullo sfondo e si fa irreale, anche nei pochi casi in cui i frammenti e le visioni si distendono in narrazioni di più ampio respiro e i paesaggi assumono contorni più definiti, più noti, come il Manitoba (dal quale Demchuk proviene) di Katerina, la Kiev di Nadiya o la Cracovia di Dragoi. L’effetto è quello di un senso di spaesamento, di vertigine, amplificato dai rari passaggi in cui il nostro mondo fa capolino con un’automobile, un treno, un cellulare, un contratto di assicurazioni: ma l’impressione è che siano queste presenze a essere incongrue, e ciò che rappresentano un’illusione, un fantasma che si sovrappone diafano alla reale sostanza delle cose, pronta a fare il suo ingresso spaventoso e trionfale dietro la crosta dell’apparenza.

Prima opera narrativa di un autore che fin dagli anni Ottanta si era distinto soprattutto per la sua produzione teatrale, televisiva e radiofonica, Madre delle ossa apre spiragli su un’oscurità strisciante, su un disagio che ha radici profonde e di cui volentieri faremmo a meno: il disagio della modernità. Ma è proprio per questo che le storie di Demchuk ci tengono avvinti: perché fanno male, quando ad esempio strisciano lungo le pareti della mente di un violentatore di bambini in Gregor o quando raccontano di come una ragazzetta innocua si trasforma in Madre Ossa, la “strega malvagia” del titolo “che mangia i bambini cattivi” come in Luisa.

E perciò colgono nel segno.