Una raccolta di ritratti, istantanee scattate dal fotografo romeno Costicá Acsinte tra il 1935 e il 1945 e custodite nel Museo di Storia del Distretto di Ialomita: uomini, donne, vecchi e bambini congelati in riquadri patinati di antico: come in uno Spoon River da incubo – uno Spoon River di persone vive e di immagini morte – le figure si animano e prendono la parola, raccontando la loro storia, ognuno con la propria voce narrante che sembra identica a quella di ogni altro, distaccata e impersonale, come quella di una divinità impassibile o della natura che assiste con la stessa indifferenza a eventi tragici o felici per un’umanità che è solo una comparsa tra le tante. È proprio questo tono, solenne, quasi salmodiante, mai coinvolto pur nella giostra di casi umani che ci viene presentata, a contribuire più di tutto all’effetto di straniamento che questo falso romanzo produce.
Falso romanzo: perché è tenue il filo che lega le storie che, come quelle immagini alle quali sono ispirate, si compongono e scompongono tra loro, a creare un’atmosfera arcana di bellezza spaventosa e incomprensibile. Ma tutto è già lì, nelle immagini, e così il primo tassello di questo libro-mosaico, la storia di Borys, mostra due uomini che si assomigliano, gli zigomi larghi dei lineamenti slavi, vestiti a festa, lo sguardo solenne che fissa l’obiettivo, e in mezzo a loro un bouquet di rose. Il racconto riprende il tempo senza tempo dell’istantanea e lo precipita nell’atmosfera allucinata che Madre delle ossa costruisce con pochi tocchi sapienti: “Io e mio fratello Sergyi ci siamo sposati con una piccola cerimonia nella chiesa del nostro villaggio”.
Due fratelli sposi, e uno che, rimasto vedovo dell’altro, racconta la sua storia. Un villaggio di un altrove incerto, immaginario, che si tinge nei nomi, nei costumi e nelle mitologie di connotati est-europei, ma che richiama anche altri contesti, costruisce un mondo alternativo, a sé stante. Molti di questi capitoli sono pure visioni, sganciate da ogni contesto reale o realistico, fiabe nere (“favole dalla cadenza ipnotica” le definisce il comitato del Sunburst Award, premio canadese per la letteratura fantastica che nel 2018 è stato aggiudicato a quest’opera) sospese sul filo di una società arcaica, contadina, sulla quale incombono forze oscure, incarnate in una fabbrica enigmatica in cui si celebrano riti sinistri, mentre la civiltà, e con essa il senso di appartenenza a un mondo noto e rassicurante, aleggia sullo sfondo e si fa irreale, anche nei pochi casi in cui i frammenti e le visioni si distendono in narrazioni di più ampio respiro e i paesaggi assumono contorni più definiti, più noti, come il Manitoba (dal quale Demchuk proviene) di Katerina, la Kiev di Nadiya o la Cracovia di Dragoi. L’effetto è quello di un senso di spaesamento, di vertigine, amplificato dai rari passaggi in cui il nostro mondo fa capolino con un’automobile, un treno, un cellulare, un contratto di assicurazioni: ma l’impressione è che siano queste presenze a essere incongrue, e ciò che rappresentano un’illusione, un fantasma che si sovrappone diafano alla reale sostanza delle cose, pronta a fare il suo ingresso spaventoso e trionfale dietro la crosta dell’apparenza.
Prima opera narrativa di un autore che fin dagli anni Ottanta si era distinto soprattutto per la sua produzione teatrale, televisiva e radiofonica, Madre delle ossa apre spiragli su un’oscurità strisciante, su un disagio che ha radici profonde e di cui volentieri faremmo a meno: il disagio della modernità. Ma è proprio per questo che le storie di Demchuk ci tengono avvinti: perché fanno male, quando ad esempio strisciano lungo le pareti della mente di un violentatore di bambini in Gregor o quando raccontano di come una ragazzetta innocua si trasforma in Madre Ossa, la “strega malvagia” del titolo “che mangia i bambini cattivi” come in Luisa.
E perciò colgono nel segno.