Se, a tutt’oggi, c’è più di un terreno da esplorare nel rapporto tra la scrittura letteraria e le varie espressioni culturali dei popoli subalterni, Dario Borso ne individua uno di sicura importanza – nonché di grande efficacia, sulla pagina – nella pubblicazione dei diari dei soldati semplici italiani nel periodo che va dalla sconfitta di Adua, nel 1896, all’armistizio dell’8 settembre 1943. Alcuni di questi diari erano già passati, in precedenza, per le mani di Giovanni Comisso, venendo così assorbiti da quella che Borso descrive, con particolare precisione, come una “forma modernissima, nient’affatto impolitica, di performance letteraria: [Comisso] stimolava i subalterni a parlare e soprattutto a scrivere, diventando così una specie di talent scout nonché di editor”.
In questo senso, il primo termine di confronto che viene alla mente, nella tradizione letteraria italiana, è senza dubbio Pier Paolo Pasolini, che, tra l’altro, si interessò profondamente al lavoro di Comisso – aggiungendo, così, il proprio sguardo autoriale agli approfondimenti critici di Contini e Debenedetti – e che “al convegno trevisano su Comisso del maggio 1968 [ne] colse infine la cifra nel permanere ancor oggi di qualcosa di sorgivo e di popolare in una prosa d’arte conclusa”. Pasolini fa qui riferimento alle descrizioni, assai frequenti nel Comisso degli anni Cinquanta e Sessanta, del paesaggio veneto post-bellico, descrizioni che Borso definisce, sempre correttamente, come tinte “di elegiaco come mai prima, e in leggero anticipo sulla tragica lamentatio pasoliniana circa la ‘rivoluzione antropologica’ azzeratrice della civiltà contadina”.
Insieme a Borso, si può dunque sottolineare come Comisso rappresenti quella prospettiva “rural-fascista” su quel mondo in via di sparizione al quale guarderà, con diverso afflato, anche Pasolini. Tuttavia, questa è una componente dell’opera di Comisso che non si potrebbe facilmente intendere senza la precedente, nel quale l’autore trevigiano – soldato durante la prima guerra mondiale, nelle file del Genio radiotelegrafisti, e poi legionario a Fiume – si impone di pubblicare, dopo opportuna selezione editoriale (non di rado censoria), gli scritti dei suoi commilitoni, vicini e lontani.
Nel tornare a regalarci queste pagine, e mostrando sempre, in controluce, l’intervento editoriale, culturale e politico di Comisso, Borso ci restituisce anche il proprio personale récit dell’avventura filologica. Ne è chiave di volta l’impianto delle note a piè di pagina, mai irretite dal richiamo della scrittura accademica, e invece libere di alternare la più pignola delle attestazioni documentarie con la più anarchica delle divagazioni. Un anarchismo di fondo che non significa semplice soggettivismo o pura arbitrarietà, bensì la costruzione – sempre esplicitamente dichiarata – della soggettività del filologo e, più in generale, del ricercatore.
Si tratta, inoltre, di una scelta formalmente coerente con la struttura più generale del libro e con il suo emergere – a sprazzi, comunque sempre discreti – di un coinvolgimento personale e intellettuale che va al di là dell’interesse erudito per un autore più o meno conterraneo e, agli occhi del lettore di oggi, tanto controverso (anche in questo caso, Borso dà esauriente testimonianza formale di questo giudizio, ponendo a suggello del testo due ritratti di Comisso – una xilografia di Arturo Martini, del 1916, e un autoritratto a carboncino dello stesso autore, nel 1952 – che ne forniscono due immagini piuttosto diverse).
Ci sono, infatti, delle motivazioni ancora più profonde, per questo lavoro di Dario Borso – motivazioni che non si sveleranno tutte qui, ma che innervano, ad esempio, il titolo e il preambolo del testo. Il titolo, Ostaggi d’Italia, mette l’accento su quelle “vittime di guerre non volute e ostaggi di ideali totalmente estranei” – come recita la quarta di copertina – che l’intervento di Comisso ha manipolato, cercando di farli entrare in un discorso ideologico più omogeneo e meno dissonante. Il preambolo, invece, inizia con un ricordo di Dario Borso del suo “antico maestro” Mario Dal Pra, successore di Antonio Banfi presso la cattedra di Storia della filosofia della Statale di Milano e istigatore degli studi storici e filologici intrapresi da Borso in relazione alle due guerre mondiali.
Di Mario Dal Pra, Borso aveva già curato il volume Storia della guerra partigiana (Giunti, 2009), facendone sicuro punto di riferimento anche per la propria ricerca, in compagnia di un’altra importante opera sulla Resistenza partigiana – ancora più utile, se possibile, nella prospettiva della pratica filologica, come si può leggere in questo passaggio: “Il mio punto di riferimento generale era costituito dal Saggio storico sulla moralità nella Resistenza di Claudio Pavone, uscito nel 1991 col titolo Una guerra civile, e in particolare dal capitolo sulla scelta di passare all’opposizione attiva, dove veniva sottolineata la pluralità dei moventi allargando il discorso ai soldati italiani prigionieri dei tedeschi che avevano optato per il no all’arruolamento nelle loro file. Questa pluralità orientava necessariamente verso la microstoria dei casi singoli…”
Del resto, la filologia è un racconto, per usare le parole di Borso, “nient’affatto impolitico” e, in questo caso, perfettamente coerente e più che necessario.