Danzando tra le fiamme. Un palinsesto delle lotte sociali

Clover nota come la radice storica del riot sia dentro lo sviluppo del mercato mondiale e del mercantilismo: una globalizzazione ante-litteram a partire dal XVI secolo che determina trasformazioni epocali soprattutto nelle aree portuali (in Europa come in Nord America e nelle colonie). E dove c’è una trasformazione sociale c’è un riot, poiché esso stesso è un processo di trasformazione.

Leggere e scrivere di Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, di Joshua Clover, studioso accademico nordamericano di Comparative Literature, sulla scia dei sommovimenti e delle rivolte scoppiate nelle periferie delle grandi aree urbane francesi nell’estate del 2023 in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk, fattorino diciassettenne con origini nordafricane a Nanterre, conferisce un senso di illuminazione e profondità storica per prendere di petto l’insostenibilità dello stato di cose presente.

Ma che cos’è un “riot”? Sommossa, insorgenza, rivolta. Nel capitolo introduttivo, Clover ne avanza una definizione sulla base di una lunghissima genealogia storica, mettendoci in guardia sull’automatismo riduzionista che associa tumulti e rivolte esclusivamente alla violenza. Un approccio affatto innocente, che mira all’esclusione del riot dal campo ‘nobile’ della Politica (diversamente dallo “sciopero” tradizionalmente ed erroneamente inteso come manifestazione organizzata, pacifica e sostanzialmente legittima poiché non orientata al sovvertimento sociale). La retrodatazione dell’origine della parola inglese addirittura al Medioevo ce ne consegna una connotazione densa e altamente significativa: il riot è una forma di antagonismo da parte degli spossessati. Come già nei Racconti di Canterbury (The Canterbury Tales, 1387-1400) di Geoffey Chaucer – opera fondativa della lingua e della nazione inglese stessa –, il riot è il rovesciamento delle gerarchie sociali.

Benché il riot si presenti come un evento ben localizzato – legato a un’economia di circolazione e alla variazione dei prezzi sul mercato – Clover nota come la radice storica del riot sia dentro lo sviluppo del mercato mondiale e del mercantilismo: una globalizzazione ante-litteram a partire dal XVI secolo che determina trasformazioni epocali soprattutto nelle aree portuali (in Europa come in Nord America e nelle colonie). E dove c’è una trasformazione sociale c’è un riot, poiché esso stesso è un processo di trasformazione.

Non è certamente un caso se l’oscillazione storica (che Clover chiama “swing”) dal riot allo sciopero sia collegata ai porti e ai commerci, indicando la nascita della parola “strike”, sciopero appunto, nel 1768 quando i marinai si unirono a lavoratori, artigiani e commercianti urbani per rivendicare salari migliori. Fu in quella occasione che furono ammainate le vele che in inglese è il primo significato del verbo strike.

Tra il 1920 e il 1970, la grande migrazione di intere fette di popolazione nera dal Sud al distretto industriale di Detroit portò la presenza nera dell’area dal 4 al 45%, fornendo così il sostrato, nella seconda metà degli anni Sessanta, negli Stati uniti, alla nascita di movimenti radicali e significativi come il Black Panthers Party e la Nation of Islam. Siamo in un contesto in cui si fa strada il Movimento per i diritti civili e, in grandi aree urbane come quella di Los Angeles, la polizia sorveglia e controlla con la violenza le disuguaglianze di classe. In un momento molteplice, moltitudinario e plurale di sollevazione e disordini il ritorno prepotente del riot non può fare a meno di mettersi in ascolto delle esperienze di sciopero nelle grandi fabbriche, fino all’insorgenza dello “sciopero militante nero” che, scrive Clover, è “una versione dello sciopero selvaggio che viene al di là dei limiti dei tradizionali sindacati a maggioranza bianca” e “trae la propria autorità dalle conflagrazioni urbane del riot a Detroit”, ovvero da lotte che “non erano basate su condizioni di lavoro condivise, bensì dalla distanza dal mercato del lavoro, e dal conflitto sulla riproduzione sociale che si volge al di fuori della sfera della produzione”.

Insomma, nell’approssimarsi della crisi sul piano della produzione (che esploderà durante la cosiddetta Crisi energetica del 1973 senza mai più finire fino a giorni nostri) le esperienze della rivolta e del dissenso radicale convergono, si mescolano e si potenziano. Come acutamente riporta Clover, è interessante leggere da vicino il Kerner Report (1968) commissionato dal Presidente Lyndon Johnson all’indomani della Great Rebellion del 1967, nel quale gli estensori parlano di uno “spirito di spensierato nichilismo” fino a credere di vedere – ma probabilmente non si era trattato di una visione! – “dei giovani che danzavano tra le fiamme”.

I bagliori che illuminano la “lunga crisi” del sistema capitalistico iniziata nel 1973, sono quelli dei numerosi e ripetuti riot che sono andati letteralmente in scena a livello globale a centinaia in questi ultimi cinquant’anni e in maniera sempre più scandalosa negli ultimi trenta: dalla rivolta di Los Angeles del 1992 – dopo la diffusione di un video che riprendeva il brutale pestaggio del cittadino nero Rodney King (la rivolta ebbe appunto, fra gli altri, il nome di The Rodney King uprising) da parte della polizia, alle rivolte di Gezi Park (2013) in Turchia a quelle di Piazza Tahrir in Egitto (2011), dalle rivolte nella banlieue francese di Clichy-sous-Bois nella sterminata e sfrangiata area metropolitana parigina nel 2005, dopo la morte di due ragazzi, Zyed Benna e Bouna Traoré, fulminati in una centralina elettrica dove si erano probabilmente nascosti per sfuggire ad una rappresaglia della polizia fino ai fatti già citati del luglio 2023.

Queste sollevazioni sconvolgono e indignano un’opinione pubblica mondiale ormai assuefatta e ben addestrata alla condanna indiscriminata e pregiudiziale di queste manifestazioni da parte di media e politica di palazzo: ovvero gli stessi attori sociali che, in maniera evidentemente fallimentare, hanno provato e continuano a provare a gestire – ma sarebbe meglio dire contenere – gli effetti di questa nostra lunga crisi.

Dunque, educata all’idea che il conflitto rappresenti una catastrofe sociale, soprattutto se ‘spontaneo’ – ma qui Clover dedica numerosissime pagine alla smitizzazione della presunta spontaneità dei riot –, l’opinione pubblica accetta una realtà atroce: quella in cui “capitale e lavoro si trovano a collaborare per preservare la capacità di autoriproduzione del capitale, mantenendo in vita i rapporti di lavoro di pari passo con la sopravvivenza dell’azienda”. In sostanza il feticcio della forza lavoro che si immola per la salvezza del proprio sfruttatore nel nome di un lavoro sempre più malpagato e precario, che riduce inesorabilmente la capacità di azione dei soggetti sociali nella sfera della circolazione: il mercato, la sua merce e i suoi prezzi.

Tuttavia, è proprio lì che storicamente insiste il riot, ripete Clover: monta, scoppia, spariglia e sovverte l’esistente mettendo in crisi i rapporti di forza lungamente consolidati. E se sin dal Medioevo la sfera d’azione del riot è stata spesso appannaggio delle donne che hanno (da) sempre dovuto confrontarsi con il mercato, i suoi prezzi e le oscillazioni, ora sono le pluralità di soggetti sociali “razializzati” – le comunità nere negli Stati uniti come quelle migranti e post-migranti delle banlieue francesi – ad essere tenute ai margini del lavoro salariato e ai bordi estremi dei consumi e dei desideri.

In generale, il tentativo storiografico di Clover di identificare il momento dell’ingresso sulla scena delle lotte e del conflitto sociale della forma “sciopero” mostra chiaramente la sua coesistenza con una molteplicità di altre forme di lotta, lasciando intendere che lo sviluppo sempre più tumultuoso della modernità industriale con tutti i suoi prodromi, rappresenti in realtà la storia stessa del lotte sociali, del loro potenziale e potere trasformativo che incide in profondità nei processi di soggettivazione e nelle relazioni produttive dello sviluppo capitalistico.

Dunque il binomio riot-sciopero – che è una vera e propria contiguità complice, considerato che il secondo (in)sorge dal primo – può essere letto come un palinsesto nel quale leggere, nella filigrana delle cancellature, delle omissioni e delle riscritture il ruolo decisivo delle soggettività in lotta all’interno della vicenda caotica e disomogenea del capitalismo. Da questo punto di vista, Riot. Sciopero. Riot mostra come nelle pieghe di un movimento storico e dunque umano non sempre teleologicamente orientato al miglioramento delle condizioni di vita e all’emancipazione, nulla è inevitabile e tutto è trasformabile dalla potenza dell’umano.

Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, (Meltemi, pp. 246, euro 20 stampa, euro 13,99 ebook), sapientemente tradotto da Lorenzo Mari e impreziosito da un Poscritto all’edizione italiana dello stesso autore, è curato dal Gruppo di Ricerca Ippolita all’interno della collana di Meltemi “Culture Radicali” diretta dallo stesso Gruppo, nato come collettivo dedito alla critica delle culture digitali. Una collana davvero formidabile, nella quale trovano posto, tra l’altro, la pedagogia critica di bell hooks e le borderlands di Gloria Anzaldúa, i lavori di Bernard Stiegler e Antonio Caronia, come pure il Comunismo Queer di Federico Zappino. Clover aggiunge qui un altro tassello per chi non vuole rassegnarsi a interpretazioni accomodanti e stagnanti delle relazioni sociali e dei rapporti di potere.