Danilo Kiš / Un’anima balcanica nell’assurdo temporale del ’900

Danilo Kiš, Salmo 44, tr. di Manuela Orazi, Adelphi, pp. 135, euro 19,00 stampa, euro 13,99 epub

Uno degli scrittori europei più invisibili, secondo Milan Kundera, poiché essere “bastardo” (come Danilo Kiš si definiva, e “venuto da nessun luogo”) tiene lontani dall’attualità – letteraria e sociale – a ogni latitudine. Se poi l’occhio del tempo si rivolge al “nessun luogo” in cui scrittori e ebrei la maledizione nazista ha concentrato, e fatto sparire, infine possiamo capire quanto l’Olocausto ha macchinato perché la non-realtà prendesse il sopravvento. In tutto questo s’inserisce Salmo 44, opera giovanile di Kiš che ancora mancava al lettore italiano della sua opera. Una prosa-strappo, così come Zanzotto parlava di poesia-strappo riferendosi all’opera poetica di Paul Celan, una prova che trasporta tutti noi nell’esperienza diretta del campo di Birkenau. In un flusso di violenza ossessiva, copiosa almeno quanto il sangue delle mestruazioni che cola lungo il corpo della protagonista Maria, che insieme al figlio neonato e alla compagna di prigionia Jeanne tenta la fuga dall’orrore.

Kiš nel 1962 pubblica Psalm 44 quando ha venticinque anni, ispirato dalla storia apparsa su un giornale di due sopravvissuti di Auschwitz in visita al museo del lager. In queste ultime giornate di Maria si odono le cannonate, lo scrittore descrive il flusso di coscienza della protagonista mentre la mortificazione si unisce al dolore della povera Polja morente su un pagliericcio in preda alla febbre. Gli alleati avanzano, ma lì si attende il trasporto verso le camere a gas, rimandato come se la morte fosse soltanto un sussulto cieco nella mente dei carnefici. Kiš aveva sette anni quando a Novi Sad ci fu il massacro di serbi e ebrei da parte dei fascisti ungheresi: rievocare la storia di suo padre, rievocare gli strappi della Storia, sempre sul bordo della cancellazione, diventa subito il suo inno alla potenza della parola. Grande poesia, nessun luogo comune in nessuna pagina da lui scritta.

Lo scrittore serbo non indulge a fantasie mistiche, ma già in quest’opera giovanile la durezza corre lungo i territori dell’Europa centrale difficili da individuare sulle carte geografiche (perché fatti scomparire), osando la narrazione di quell’assurdo spaziale e temporale che travolse il nucleo del Novecento. Dove i morti “gemmarano” non secondo il “tema ossessivo” della letteratura, ma per il delirio che trasformò in cenere milioni di esseri umani. La scrittura di Kiš è stata, fin dagli esordi, una onnipresente e inesausta prova di resistenza – e scongiuro – alle tenebre.