Daniele Mencarelli, al centro di un racconto che altri autori avrebbero preso di sbieco, posa lo sguardo su chi ama, su chi se n’era andato e ora ritorna – fra due città di forti desideri e forti poesie, quelle che da sempre accompagnano (poeti e non) possibilità, desideri avuti e perduti. I pensieri, dentro questo nuovo romanzo, scaturiscono dalle vite incrociate, sbucano dalla borsa della spesa e dagli autobus che accomunano tutti. Libro come una ballata, in dedica ai “sommersi” e ai maestri che travasano, talvolta in malo modo, il dolore che spezza e riempie esistenze, in concatenazioni tenaci al limite della liturgia quotidiana.
La Roma Vecchia degli Acquedotti emerge da un cosmo che Mencarelli suddivide in sei capitoli, da Anio Vetus a Anio Novus, teatri dove l’emergente architetto Gabriele Bilancini ritorna nel fuoco degli anni adolescenziali, partendo da Milano – città del suo successo – per giungere agli amici e alle amiche di giovinezza, epoca fuggita via e dimenticata. Ma che d’improvviso torna mutata: divinità che presenta il conto, fra semplici dimore e estensioni verdi dove giganteggiano gli acquedotti romani trasformati nell’immagine visionaria di maestosi elefanti in fila indiana – incombenti, e ammissibili suggeritori di una via.
Sorti differenti hanno bisogno d’essere ascoltate nelle loro forti voci, di resistenza materna: la mamma che sa e non dice ma influenza le giornate capitoline del natio quartiere Tuscolano. La compagna di Gabriele, Camilla, dalla capitale lombarda vorrebbe capire quel che succede nell’altra capitale, attua resistenza verso l’immersione inaspettata del talentuoso amore in quello spazio lontano, diverso, per lei fuori tempo. Le radici di Gabriele affiorano improvvise, origini magmatiche e invasive anche nel linguaggio che ora si ascolta impregnato di dialetto romanesco: divertente, ma avvertito come una minaccia.
Mencarelli disegna una frattura che conosce bene, forte della sua vocazione poetica, e sempre più intrecciata ai valori della vulnerabilità e del disagio psichico. La potenza della lingua brucia, dai quartieri mentali ai quartieri conservativi di cui Roma è ricolma. E i paesaggi domestici s’espandono, guardiani di dialoghi sempre più intimi e forti, densi e privi di sconti. La Milano adottiva di Gabriele s’allontana, l’alta gradazione degli anni giovanili è fatta di ricordi d’amore e di una musica travolgente, lo sguardo diventa bruciante, alcolico, mentre gli Acquedotti sono sempre più presenze attive nel parco, costruzioni mitologiche che si fanno abbracciare fin quasi alla perdita dei sensi. Il campo mentale diventa barbarico, come luogo reale in cui tutti stanno immersi: gli adulti conoscono la ruggine della loro giovinezza, Gabriele vorrebbe scordarsene nel suo tentativo di approfondire ogni dialogo (con la madre, con la compagna, con gli amici) fino al limite in cui rivedendosi bimbo, incontra per l’ultima volta i giganti elefanteschi contro il nero della campagna: sono gli Acquedotti che se ne stanno andando. È a quel punto che lui, e Mencarelli (ne siamo certi), li abbraccia. E non li lascia.