Daniele Manacorda / Archeologia, conservazione del passato

Daniele Manacorda, Posgarù. Dialoghi diagonali sul patrimonio culturale e dintorni, Edipuglia, pp. 340, euro 16,00 stampa

In un paese del Monferrato, su un’altura in posizione panoramica, si conservano i resti di un castello medievale. Un’unica parete verticale bucata da finestre; a qualche decina di metri di distanza, un enorme cedro del Libano. Da lontano, muro e cedro disegnano uno skyline metafisico e sbarazzino: una forma rettangolare e severa, e uno scarabocchio alla Steinberg. L’area è in abbandono, invasa dalla vegetazione. Una discussione sul luogo fra tre amici (la scrivente, archeologa, un attore e un’antropologa) ha reso evidente la diversità degli approcci: se l’archeologa si chiede come conciliare il mantenimento della rovina con la sua fruibilità e la comunicazione al pubblico, i due amici hanno idee del tutto eterodosse rispetto alla visione di tutela corrente: uno vorrebbe che il castello fosse completamente ricostruito; l’altra propone l’abbattimento dell’unica parete che resta per rendere il luogo sicuro, accessibile e  – nonostante l’assenza della rovina – preservarne il genius loci.

Questa discussione mi è tornata in mente leggendo l’ultimo libro di Daniele Manacorda – uno dei più importanti archeologi italiani – che è una raccolta di 32 dialoghi tra personaggi di finzione, su temi vari legati al patrimonio culturale. Scrivere dialoghi è un’operazione molto difficile, soprattutto quando non lo si fa espressamente per una sceneggiatura cinematografica o teatrale. A un esempio alto rimanda il titolo: un termine inventato nato dalla fusione del greco antico Pòs gàr ou?, espressione ripetuta spesso dai personaggi dei dialoghi di Platone; una sorta di Come no?, un intercalare che invita al confronto, ad andare avanti nella discussione. Ma qui non c’è nessun Socrate; qualche addetto ai lavori sì (professori, archeologi) però a discutere sono soprattutto persone comuni: ragazzi, studenti, adulti mentre cucinano o vanno a portare fiori al cimitero, in bus o in taxi o all’inaugurazione di una mostra o allo stadio, anziani che fanno passare il tempo sulla panchina di un parco. Il linguaggio è colloquiale e accessibile a un pubblico ampio, mentre i temi trattati scandagliano nel profondo la complessità e l’ambiguità del patrimonio culturale soprattutto materiale. Alla fine, non si arriva a soluzioni o verità finali ma piuttosto a molti dubbi, brandelli di opinioni, spunti su cui ragionare.

Che cosa si intende con patrimonio culturale, a chi appartiene, chi può scriverne e parlarne; il rapporto tra cultura ed erudizione, tra tutela e valorizzazione, tra gestione pubblica e privata dei beni; il ruolo del museo (luogo di culto o servizio pubblico?); l’artificiosità delle divisioni tra cultura alta e bassa, arte e arti minori (perché, si chiede uno dei personaggi, andare in pinacoteca è un’operazione culturalmente elevata, visitare un museo archeologico è un’esperienza più didascalica, di natura informativa, e partecipare a una processione è folklore?); le problematiche etiche legate allo scavo e all’esposizione dei resti umani (il “buon uso dei morti”); la coesistenza tra antico e moderno, soprattutto nelle aree urbane e a Roma in particolare; il difficile equilibrio tra la dimensione economica e la sfera della cultura – questi alcuni dei temi affrontati.

E poi c’è la questione del libero riuso delle immagini dei beni culturali, che può apparire secondaria ma è invece, in piena rivoluzione digitale, uno snodo importante per comprendere il nostro rapporto con il passato. Nel 2014 è stata liberalizzata la riproducibilità fotografica dei beni culturali (D.L. 83/2014, c.d. “Art Bonus”) mentre il riuso delle immagini a fini commerciali è subordinato alla concessione di un permesso e al pagamento di una licenza allo Stato. I rischi del libero riuso, dicono alcuni, sono di mercificare la cultura e minare al decoro (alla reputazione, potremmo dire) del bene culturale. Secondo altri questo è un approccio purista, fondato su una visione feticistica delle opere d’arte, dei reperti e dei siti archeologici, che conduce a una censura morale (chi decide se l’uso è decoroso o indecoroso?) e che, tra l’altro, nega ai beni culturali di poter essere parte di un contesto economico, come se un uso a fini di lucro li potesse “sporcare”. Per i secondi il riuso sarebbe invece un modo per diffondere l’immagine e la conoscenza del bene. Un grafico pubblicitario che oggi volesse utilizzare la riproduzione un famoso dipinto conservato in Italia aggiungendoci i baffi (il riferimento è alla famosa versione della Gioconda di Marcel Duchamp del 1919) dovrebbe pagare, ammesso che tale riuso venga approvato; ma cosa stiamo proteggendo: l’opera in sé o il diritto di proprietà (anche intellettuale) che vorremmo vantare su di essa?

Castello di frazione Marmorito (AT) – foto V. Cabiale

Dal libro di Manacorda emerge un invito in primo luogo all’ascolto. Tutti hanno il diritto di avere una propria visione del passato ed è soprattutto nel campo della valorizzazione, della comunicazione, che bisognerebbe tenerne conto. Quel che serve è “una rivoluzione (…) che ci faccia guardare al patrimonio con gli occhi dei cittadini, dei visitatori, degli utenti”, perché se viviamo in una Repubblica, come dice un personaggio, tale Ugo, “anche il barbiere avrà diritto di dire la sua”. A chi ha competenze specifiche in materia molte opinioni – ricostruire un castello completamente distrutto, o demolire l’unica parete che ne resta – appaiono eretiche ma derivano, spesso, da una sincera percezione dei resti materiali del passato, nonché da una volontà di partecipazione alla loro ridefinizione; prima di essere giudicate e bocciate dovrebbero quindi essere ascoltate e incluse in una valutazione seria del rapporto tra le rimanenze materiali del passato e il futuro dei territori.

Permane costante, tra le righe, una questione irriducibile, che è quella relativa al senso dell’archeologia. Solo a partire dal Settecento siamo andati a dissotterrare l’antico per esporlo, inizialmente come paradigma da ammirare; dopo anni di scavi, ricerche, rivoluzioni metodologiche della disciplina, tuttora irrisolto è il rapporto tra l’oggetto della conoscenza e il costo sociale di quella conoscenza, evidente soprattutto nell’archeologia urbana: viene da chiedersi, cioè, e non solo a chi guarda l’archeologia con malcelato fastidio, a che serva la città morta, rianimata; che rapporto abbia con il passato già inglobato nei centri storici ma rimasto sempre sopra-terra e come possiamo, noi, vivere in questo paesaggio ibrido. Qualcuno usa il passato per nascondersi, per crogiolarsi in esso o perché pensa che gli appartenga. Per altri, il passato è semplicemente una necessità. Forse perché, pescando sempre dalle parole dei personaggi del libro, non siamo immortali. Se lo fossimo non ci importerebbe delle cose vecchie, di ciò che è stato prima. È la mortalità che ci fa ravanare sulle bancarelle dei rigattieri. Il desiderio di un non so che di antico, mezzo perduto, a cui sono attaccate memorie che non conosciamo. Una nostalgia, ovvero “il dolore, la sofferenza che ti dà il desiderio di tornare indietro” (da algia, dolore e nostos, ritorno); una cosa mezza triste e mezza felice, fatta di emozioni ritrovate che aiutano a sentirsi vivi, a fare cose, forse a mettere in moto l’immaginazione. “Si può avere nostalgia di qualcosa che non abbiamo conosciuto e vissuto? Di qualcosa che abbiamo conosciuto di rimbalzo, dai ricordi altrui, dai documenti, dagli scritti, dai cocci, dagli scheletri…? È nostalgia quella?” – si chiede una donna tra sé e sé, nell’ultimo dialogo. Si domanda, poi, quanto la nostalgia individuale dell’infanzia perduta abbia a che fare con “la nostalgia del passato di tutti”; e quest’ultima, volendo, è una bella definizione di archeologia.

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