È insolito che un romanzo di fantascienza, con le astronavi e tutto, racconti una storia che si svolge a 300 metri da casa tua – in Largo Murani a Milano – ma Le fortezze dell’alba di Daniela Piegai è in effetti un insolito romanzo. Insolito perché scritto quasi mezzo secolo fa, all’indomani di un periodo storico che per breve tempo prese il nome dalla copertina del 2 gennaio 1979 di “Panorama”, la rivista che al tempo contendeva a “L’Espresso” il pensiero informato e ipoteticamente “di sinistra”. Il titolo strillava: Il Riflusso (“La nuova filosofia degli italiani: tanto vale divertirsi”). Insolito perché parla di alcuni giovani reduci adolescenti al termine della stagione del ’77, qui osservati soprattutto da un’angolatura in campo lungo, quella, dell’interminabile ’68 italiano, al di là della loro specificità linguistica, generazionale. Insolito perché non trovò allora un editore, malgrado Piegai fosse già un’autrice nota e pubblicata, perché considerato troppo esplicitamente politico, con azioni che, con tutta la non violenza e il pudore letterario dispensato dall’autrice, potevano comunque richiamare alla mente azioni meno pacifiche e più sovversive. Insolito, infine, perché l’editore lo ha trovato adesso, grazie a Delos, e ai due curatori, Laura Coci e Roberto Del Piano, dopo che il dattiloscritto è rispuntato, pare, dal fondo di una cassapanca. Rivisto negli anni ’90, il nucleo originale del romanzo risale all’’82 e precede ad esempio di alcuni anni un testo imprescindibile sul ’77 come gli Invisibili di Nanni Balestrini.
Le Fortezze dell’alba, come qualsiasi storia che voglia provare a raccontare il Riflusso, ha un prima e un dopo. Il “prima” finisce quando i cinque ragazzi si ritrovano per un’ultima missione totalmente assurda, patafisica e perciò intrinsecamente rivoluzionaria: è la parte che trae spunto da un racconto precedente. Il “dopo” comincia invece con le impreviste conseguenze quantistiche di questa azione diretta: il mondo come lo conosciamo esplode ma non scompare; anziché finire in pezzi si distingue in alcune dimensioni parallele. Quella in cui ci risvegliamo si offre al lettore in un registro riconoscibilmente “fantascientifico, apparentemente sul tipo di Fanteria dello spazio di Robert A. Heinlein: ci sono militari terrestri ma, al posto del nemico ragnesco, c’è l’incarnazione sfuggente di sogni che si pensava scomparsi sulla Terra. Le porte della percezione si sono spalancate su una realtà che moltiplica le illusioni fino a trasformarle in creature aliene colorate, astratte, quasi incorporee. I Mix – come vengono chiamati – sono un’arcana e bizzarra antropologia ma per i governi sono il nuovo nemico. Due dei giovani, Mino e Gengis Khan, i più tosti o forse quelli senza una famiglia alle spalle, rinnegando le proprie convinzioni, si arruolano nelle forze speciali create per combattere le creature su un lontano pianeta.
Le Fortezze dell’alba è un romanzo di formazione che non approda all’età adulta ma alla nostalgia di un futuro che i protagonisti scoprono di essersi lasciati alle spalle. Nella fabula fantascientifica cresce la confusione tra interno e esterno, rimarcando l’incertezza e l’irrilevanza dell’io nei processi che si credeva di poter governare. Su un pianeta lontano anni luce da casa il narratore soldato confonde il sogno e la veglia, l’illusione e la realtà in cui si sta consumando la sua vita. Come si confondono i contorni che si colgono dal basso tra i grattacieli, le case e il cielo grigio di Milano. Come “fortezze nell’alba” ormai “parte del perverso meccanismo che ti fa amare le cose che hai combattuto da sempre, solo perché appartengono al tuo passato”.