È una sfida a chi legge fin dall’incipit, l’ultimo romanzo di Daniel Mason. Una sfida a seguire la prosa rigogliosa nell’atto di srotolare davanti ai nostri occhi quattro secoli di storia americana dalla prospettiva di una zona forestale del Massachusetts, dove ha sede un’anonima casa color giallo-limone. Una sfida a non perdere il filo mentre ne racconta le avventure degli abitanti, mettendo a nudo i limiti e le debolezze umane, la nostra cecità di fronte al tempo.
L’affresco creato in La foresta del nord ha inizio con una fuga. Nel diciassettesimo secolo due giovani innamorati scappano dalla Colonia puritana del New England, in cerca di libertà: nel tono in apparenza idilliaco dell’episodio, quasi sognante in mezzo allo splendore dei panorami, scorre sottile il pericolo di essere scovati e riportati indietro, una promessa di violenza. La decisione di costruirsi una vita nuova è l’ingranaggio d’avvio del meccanismo narrativo: “Il canto degli uccelli echeggiava sopra il terreno bruciato. Si liberarono degli ultimi stracci, nuotarono e si riposarono. Era tutto così nitido, così puro. Lui tirò fuori dalla borsa un sacchetto contenente semi di zucca e mais e pezzetti di patata. Si avviò sul pendio, seguito dalla gallina. Presso il torrente, trovò una grande pietra piatta e la portò nella radura, poi la posò delicatamente sul terreno. Qui, disse”.
Sono i primi di una lunga serie di esuli che troveranno rifugio nell’area. Diventerà proprietà di un soldato stanco della guerra, intenzionato a coltivare mele nonostante venga considerato uno svitato, poi delle sue figlie, avvelenate dalla reciproca gelosia e dal desiderio di cambiamento, e così via, fino ai nostri giorni. A legare le esperienze dei protagonisti di epoca in epoca, la fascinazione per il frutto che sembra attecchire così bene in quelle terre e lo stigma della malattia mentale, a volte apertamente diagnosticata, a volte latente, altre ancora solo causata dalla percezione altrui di un comportamento considerato deviante dalla norma sociale. La Natura, intanto, continua il suo corso, tra spore e semi, puma e scarabei. Impossibile districare i suoi processi dalla quotidianità degli umani, i loro cammini si intrecciano, malgrado la disattenzione dei secondi, la loro tendenza a dimenticare.
Nel ventesimo secolo è Robert, affetto da schizofrenia, a risiedere in quei luoghi. Passa le giornate a camminare ed enumerare gli elementi naturali intorno a lui, afferma di sentire le voci di chi ha vissuto lì in precedenza. Quando la sorella vi torna alla sua morte, scopre che l’uomo ha tentato di registrarle, per lei però è impossibile notarle, i nastri sono mere riproduzioni di alberi e pietre. A differenza sua Robert, ossessionato dall’idea di aggiustare il mondo, coglie i legami tra visibile e invisibile, del tutto ignorati dai “sani”, pare suggerire Mason, insegnante di psichiatria a Stanford: nessun personaggio del libro, per quanto morto, scompare mai davvero, permane in oggetti, segni, suggestioni che si amalgamano con il presente e il futuro.
Mason alterna alla terza persona lettere, dossier, ballate, trascrizioni; il testo è intervallato da dipinti e fotografie. Si tratta di una struttura multiforme capace di restituire la complessità e soprattutto la ciclicità della Storia, nel bene e nel male. Anche quando quel microcosmo viene distrutto per effetto della responsabilità umana nel cambiamento climatico, l’universo si muove, stratifica e prosegue il suo tracciato, incurante delle nostre paure e necessità, perché “la Storia perseguita chi non ha rispetto di essa”.