Adam è un uomo in crisi: ha perso il lavoro e si ritrova improvvisamente senza alcun legame e senza un motivo per restare a Capetown. Invece di perdersi nella disperazione o accettare un lavoro elemosinato da suo fratello minore, vuole usare questo momento per cambiare completamente la sua vita. Decide di trasferirsi in campagna nell’appartamento abbandonato da suo fratello e da lungo tempo disabitato, e ricominciare a scrivere poesie. La casa è in uno stato di totale abbandono, invasa da polvere e erbacce, ma Adam non si dà per vinto: la casa isolata sarà il suo nuovo inizio e la finestra sul brullo paesaggio il suo punto di partenza come poeta, finalmente lontano dalla città e dalle brutali logiche economiche del nuovo Sudafrica. Adam lo immagina come un principio che cancellerà un passato sprecato, in un giardino dell’eden vergine e selvaggio, ma scopre che non è possibile liberarsi davvero dei propri passati, il suo e quello del Sudafrica, che si ripresentano sotto forma di personaggi affascinanti e grotteschi.
In molti paesi con una lunga storia di conflitti, il paesaggio stesso diventa politico, e il Sudafrica non fa eccezione. L’amore dei sudafricani per la loro terra emerge nelle opere di molti scrittori, così come l’ambivalenza (e a volte l’ostilità aperta) verso la città. Anche solo questa dicotomia sottolinea alcune delle complessità, simboliche e reali del vivere in un paese in cui nessun luogo è esente da significati storici e ideologici. Da un lato c’è la città, con il suo sviluppo urbano brutto, pieno di predatori e povertà, in cui l’ostilità fra diversi gruppi diventa evidente nello stretto contatto quotidiano; la città è però anche un luogo dinamico, che riflette i cambiamenti e forgia il nuovo Sudafrica. Dall’altra parte, c’è la campagna, bellissima e selvaggia, un posto più armonico, ma solo perché lontana e ancora immersa nel passato, che in questo caso è un passato pieno di disuguaglianze e violenza. Questo struggimento per il paesaggio idillico della campagna diventa in questo senso problematico, frutto di un’ipocrita e colpevole nostalgia per un passato sì esente da conflitti, ma solo perché basato sul disumano e oppressivo sistema dell’Apartheid. Le ombre che si presentano nella nuova vita di Adam non hanno niente di nuovo: sono il ritorno di ciò che Adam cerca di dimenticare e reprimere, e si rifiutano di scomparire, tornando insistenti come le erbacce del suo giardino.
L’ipocrisia dei bianchi benpensanti è una delle tematiche più importanti di autori come Nadine Gordimer e J. M. Coetzee, entrambi vincitori del Booker Prize come anche Damon Galgut, che lo ha vinto nel 2021 per il romanzo La Promessa. Sono autori scomodi in una posizione scomoda, inevitabilmente. In un paese dove ammirare una collina può diventare atto politico, come si può scrivere senza che ogni scelta letteraria implichi una scelta politica? Cry, the Beloved Country di Alan Paton, pure con le migliori intenzioni, è finito ad essere considerato una specie di Capanna dello zio Tom sudafricano. Nadine Gordimer, convintamente contro l’apartheid, ha in alcune occasioni scelto narratori neri, attirandosi però accuse di ventriloquismo culturale, di aver fatto pronunciare le proprie opinioni all’Altro, aver preteso di comprenderne la situazione nello stesso momento in cui gli si “ruba” la voce. Quando la scelta stessa di un protagonista, o l’inserimento di una parola in Afrikaans o in Zulu diventano un fatto politico, si può semplicemente scrivere? Forse non è un caso che il protagonista del romanzo di Galgut sia un poeta che vuole scrivere di Bellezza. In un libro pieno di impostori, il vero impostore potrebbe essere colui che pensa che si possa “semplicemente scrivere”.