Valentina Maini / Dall’interno e contro

Valentina Maini, La mischia, Bollati Boringhieri, pp. 512, euro 18,50 stampa, euro 9,99 epub

Cinquecento pagine indimenticabili che offrono uno sguardo implacabile sulle tragiche vicende di una generazione allo sbando e, più in generale, ci consegnano una lucida visione del nostro tempo…” – pur trattandosi di annotazioni tutto sommato positive e parzialmente aderenti, forse, alla materia di questo libro, non c’è modo più azzeccato di fare un torto al primo romanzo di Valentina Maini, La mischia, recentemente pubblicato nella collana Varianti di Bollati Boringhieri.

Uso allora queste espressioni all’unico scopo di ricordare la loro presenza all’interno del romanzo, come esempio delle recensioni giornalistiche copia e incolla che accolgono il romanzo di Dominique Luque, Entangled, ossia il romanzo nel romanzo presente nella Mischia che linguisticamente si riallaccia, pur nel segno della differenza, al titolo dell’opera di Valentina Maini. È un passaggio che può sembrare a prima vista secondario, se non anche aneddotico, in una narrazione polifonica – eppure mai completamente esplosa, risultando sempre ben orchestrata nelle sue varie diramazioni, fino al serratissimo finale – nella quale la presenza di Dominique Luque viene ad essere surclassata, in termini quantitativi, dai due protagonisti del romanzo, i gemelli Gorana e Jokin Moraza, e dal loro intricato, splendidamente perturbante rapporto. Le narrazioni che coinvolgono i due personaggi si dipanano a partire dalla Bilbao del 2007, nel contesto di quello che si potrebbe volgarmente definire il “colpo di coda” delle attività dell’ETA, prima della tregua dichiarata nel 2011 e dello scioglimento ufficiale, nel 2018. La menzione dell’ETA è altrettanto importante, perché vari componenti della famiglia Moraza hanno legami più o meno espliciti con l’organizzazione, ma questa è soltanto la punta dell’iceberg di una situazione nella quale nessun personaggio – se non qualche sparuta comparsata secondaria, a difendere strenuamente l’ottusità del bene – può dirsi innocente o comunque non contaminato dalla violenza fattasi sistema.

Tuttavia, approfondendo la lettura, tanto Gorane quanto Jokin hanno molto a che fare con le velleità letterarie di Dominique Luque, nella parte parigina del libro – parte nella quale l’autrice, che vive tra Bologna e Parigi, mostra con il necessario tatto e, al tempo stesso, la necessaria distanza una città autenticamente conosciuta proprio in quanto sfuggente, inconoscibile e forse, dopo il 2015, irriconoscibile. L’intera esperienza di lettura viene allora a essere avvinta da un interrogativo radicale sulla letteratura, sulla sua capacità di restituire, costituire, prostituire, etc. – non a destituire: la violenza, pur attraversata dal libro, non sembra avere questo sfondo – altre realtà e altri discorsi. Non si tratta soltanto di un sottotesto pragmaticamente utile a consolidare, in chiave metaletteraria, la qualità dell’esordio romanzesco – introducendo, per esempio, una distanza ironica rispetto alla propria scrittura – ma di una preoccupazione più ampia, e molto più interessante, per la narrazione storica.

La mischia, infatti, si addentra nella storia basca del secondo Novecento e contemporanea senza l’ambizione di ricostruirne l’affresco complessivo – è soltanto in questo senso, forse, che si può avviare un confronto autentico con un romanzo molto diverso, ma che malgrado tutto viene facilmente alla mente, ossia Patria di Fernando Aramburu (Guanda, 2007) – né tantomeno quella di emettere giudizi che risulterebbero inevitabilmente viziati dalla forzata sovrapposizione di prospettive ideologiche in qualche modo “estranee”. È procedendo sulla base di queste cautele, e non aggirandole surrettiziamente, che universale e particolare possono continuare a fondersi nelle storie di Gorana, Jokin e degli altri personaggi “immischiati” in una vicenda nella quale, del resto, sono le violenze individuali e collettive del terrorismo – mai esposte analiticamente, se non tramite referti altri – a costituire il marchio.

Marchio che è anche linguistico, per un’autrice che ha già esplorato i territori della poesia – Casa rotta, libro uscito nel 2016 per Arcipelago Itaca, ha poi vinto l’importante premio per la poesia Anna Osti – e della narrativa breve – nella messe di racconti, dall’inventiva linguistica ancor più alacre, pubblicati negli ultimi anni su importanti riviste online e cartacee. Dare non tanto la misura standardizzata e midcult del romanzo storico ma l’indicazione di ciò che la scrittura letteraria può fare (più spesso, non può fare) è l’obiettivo riuscito di un romanzo che non è soltanto un importante esordio, ma anche un percorso portato alle estreme conseguenze, dall’interno e contro la dimensione spesso normalizzante della forma-romanzo.