Esistono libri che non esauriscono il loro portato nel breve spazio di un’edizione e, a distanza di anni, nel cerchio compiuto dal loro cammino ritrovano intatta la loro verità. È il caso di Poesia e destino, vibrante raccolta di agili saggi elaborati da Milo De Angelis in un’estate di quasi quarant’anni fa (e ora proposti per i tipi di Crocetti Editore). Nella nota introduttiva, l’autore ne inquadra storicamente il contesto: era il 1981, un’epoca che, dominata dalle “scritture sociali alla ricerca di immediato consenso”, ancora ignorava il valore dell’opera di Paul Celan, dei versi di Marina Cvetaeva e della ricerca di Maurice Blanchot, numi tutelari di questo volume.
Se il tempo trascorso da allora ha stemperato “l’antica furi” dello stile – quel tono pugnace che non ammette repliche –, esso non ha saputo affievolire l’attenzione dello scrittore nei confronti di alcuni temi, che a ben vedere costituiscono una costante nella ricerca e nella produzione letteraria di Milo De Angelis. Tragedia e mito, in particolare, si configurano come il filo rosso che attraversa queste pagine e che si snoda attraverso riflessioni pregnanti in grado di porgere al lettore tradizioni poco frequentate.
Sembra che le molte verità sulla Poesia offerte qui emergano dal ‘silenzio’ protagonista del primo saggio, un silenzio mitico perché senza segreti, “teso senza aspettative”, in sé compiuto, trasparente, pieno. Accostarsi senza remore allo svelarsi del reale significa accettare del mito persino le ombre, quello scacco per cui le stagioni riprendono il loro ciclo solo “appena Proserpina decide di amare – senza più vie d’uscita – la morte”. Milo De Angelis suggerisce, a partire da una lettura attenta del testo latino di Claudiano, che il legame tra Plutone e la figlia della dea dell’agricoltura, oltre a generare il grano, rigeneri “Cerere stessa, suo malgrado”. Il lugubre incubo concepisce cioè una nuova, vitale vicinanza.
Una certa idea di movimento è insita anche nell’etimologia della parola ‘destino’, che l’autore immagina qui come un punto dal quale una semiretta si innalza – o, al contrario, sprofonda. Se le Moire tessono per i mortali un segmento nei riguardi del quale neanche Zeus ha potere e un eroe devoto come Ettore non può che accettare, alcune figure del mito paiono sfuggire al potere di attrazione del secondo polo: per Clitemnestra e per Antigone, ricorda Milo De Angelis, la stirpe esercita un’autorità di maggior peso rispetto ad Atropo, la Moira che recide il filo. La moglie adultera di Agamennone e la figlia-sorella di Edipo spezzano il segmento e si inabissano. Il loro è il gesto immortale del poeta, nell’atto di andare a capo.
Nelle tragedie greche, di cui il curatore ripercorre qui con feroce e abbacinante lucidità alcuni tratti, vi è un’inquietante dimestichezza con l’odore del sangue, per dirla con Tóibín. È l’inappellabile Necessità che impone agli eroi di agire, senza che a questi sia concessa la facoltà del libero arbitrio: la maledizione caduta sul ghenos non lascia scampo ai figli, costretti a pagare le colpe dei padri e a macchiarsi di crimini altrettanto efferati. Ecco che la luce dei corpi viventi, che nell’omerica Delo non è contaminata dal buio dei corpi morti, si riunisce a quest’ultima, ecco che Persefone si innamora di Ade. “In questo senso Clitemnestra non uccide Agamennone, ma uccide attraverso Agamennone l’infamia che si annida in lui e dunque nella Grecia”.
Patria spezzata e nonostante questo eterna nel suo palpitante splendore, la Grecia del mito è incessante richiamo, ispira versi e riflessioni sulla poesia, e nel rito di andare a capo inchioda a un destino fatto di bivi, presagi e, talvolta, di voli.