Dal film al libro

Giuseppe Berto, Anonimo veneziano, Neri Pozza, pp. 112, euro 15,00 stampa, euro 9,99 eBook

È il 1966, a Cortina Enrico Maria Salerno propone a Giuseppe Berto, assiduo frequentatore della stazione sciistica, emiciclo di belle donne da corteggiare e mondanità di prim’ordine, di scrivere i dialoghi per un film tratto da un suo soggetto: una storia d’amore nella decadente Venezia fra un marito e una moglie da tempo separati. Un ultimo incontro nelle calli e nei canali, in vista della morte annunciata di lui, musicista malato di cancro, il tutto benedetto dai ricordi e dalla musica struggente di Alessandro Marcello. Nell’inverno del ’66-67 lo scrittore intraprende il compito, forte della pace concentrata che gli regala la cittadina dolomitica, e della forte e solidale amicizia con l’attore che desiderava ardentemente dirigere il suo primo film.

Berto in quel periodo era reduce dal grande successo del suo romanzo Il male oscuro, vincitore di Campiello e Viareggio in contemporanea. Tra invidie certe e ricercatezze si godeva una fama ampiamente meritata, e frequentazioni letterarie “di peso” com’è uso dire: Buzzati, Piovene, Parise, Zanzotto, Montanelli… e fascinose signore di gusto altero. Il film uscì nelle sale nel 1971. Complici la storia e la colonna sonora, ebbe un enorme successo di pubblico. Senza contare la presenza senz’altro seducente di Florinda Bolkan e Tony Musante. La critica storceva il naso, era quella l’epoca di Love Story, ma film e libro di cassetta senza dubbio nulla avevano a che fare col lavoro letterario dello scrittore, al di là di alcune somiglianze del plot narrativo. Il film, sì, vantava alcune scene di fastidiose sdolcinatezze allora in voga, come le corse campagnole dei protagonisti in ridondanti flashback, o la stucchevole rimembranza della decadenza borghese d’inizio ’900 in stile von Aschenbach e Morte a Venezia (il film di Visconti è dello stesso anno).

Berto e l’editore Rizzoli si affrettarono a pubblicare un testo teatrale, un dramma in due atti a cui l’autore si affezionò tanto da rappresentarlo (avendone conservato i diritti) alcuni anni dopo (a Parigi in versione francese nel 1976, e successivamente in vari teatri italiani) con l’interpretazione di Lorenza Guerrieri e Ugo Pagliai (attore fra i più amati sul palcoscenico e adorato negli sceneggiati TV. Memorabile la sua interpretazione, nel 1969, dell’Aviere Ross di T. Rattingan, pièce tratta dalle esperienze di T. E. Lawrence prima di trasformarsi in Lawrence d’Arabia).

Mentre Pampaloni, Gramigna e Valeri difendevano il testo, Berto mise ancora mano al suo Anonimo veneziano. Ambizione e puntiglioso impegno gli consentirono di giungere nel 1976 alla versione definitiva di un romanzo breve dove approfondimento psicologico dei personaggi e descrizione accurata di una città, che stava morendo come il musicista, aveva raggiunto un esito d’indubbio valore. A Berto non erano mai piaciute le critiche accusatorie che lo additavano come connivente dell’euforia commerciale in atto. Vero è che l’autore aveva già lavorato “per ragioni gastronomiche” (secondo la definizione di Brecht) per il cinema, ma in questo caso era convinto che l’opera fosse indipendente dal film e soprattutto che non potesse essere tacciata di plagio nei confronti di Segal: Love Story era un modesto libretto scritto con linguaggio giovanilistico con lo scopo di attirare lacrimucce e consensi superficiali. E d’altronde la stesura della storia era di molto precedente l’uscita del romanzo statunitense.

Sembravano tempi strambi quelli, la sinistra radicale stroncava capolavori se non altro d’ingegno visionario come Allonsanfàn dei fratelli Taviani, lasciava correre su filmetti e romanzi di sconsolante inefficacia e via dicendo, ma ancora non sapevamo cosa ci avrebbero riservato i decenni futuri. Bene fa Neri Pozza e ripubblicare l’intera opera di Berto, e Anonimo veneziano (con annessa avvincente cronistoria di vicende editoriali e filmiche), che ancora avvolge i nostri ricordi personali, e i ricordi di una generazione intimidita nello stesso periodo da assoluti capolavori e da ignobili carnet fitti di scemenze.

Era l’inizio del commercio, le segnaletiche erano scorrette, ingenuità si sommavano alla volontà di una critica in divenire mentre altra critica si apprestava a cadere come un impero alla fine dei suoi giorni. Ma stiamo ancora dalla parte di Berto che simpaticamente confidava: “… non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate”. Ai pochi entusiasti d’oggi non per nulla occorre dire via dalle vostre rudimentali pippe, siate all’altezza dei libri che in gioventù (forse) avete letto e regalato alle amichette.

Una puntata della nostra rubrica Opera Prima è stata dedicata a Il cielo è rosso, sempre di Giuseppe Berto.

 

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