Dagli archivi ai dataset: la matrice è la stessa

Negli ultimi anni si è molto parlato – non di rado a sproposito – di “cultura woke” come di un’attitudine allo stare “in allerta” che ha prodotto una sorta di “sorveglianza” della produzione culturale contro ogni tipo di pregiudizio, discriminazione e violenza esercitato verso gruppi sociali non privilegiati, come, ad esempio, la comunità afroamericana. Il libro di Simone Browne Materie oscure / Dark Matters, pubblicato nella collana Culture Radicali di Meltemi a cura del Gruppo Ippolita, concentra invece l’attenzione sulle pratiche di sorveglianza concretamente subite dalla popolazione nera degli Stati Uniti: una storia che affonda le radici negli archivi dello schiavismo e arriva fino ai nostri giorni.

Dalla sorveglianza biometrica a quella dei social network, passando per l’Internet delle cose: negli ultimi anni, il movimento Black Lives Matter è stato oggetto di svariate pratiche di sorveglianza, mirate a carpire dati e informazioni in chiave di contrasto poliziesco, legale e, più in generale, politico. Non c’è soltanto il recente caso del procedimento vinto da Amnesty International United States contro il Dipartimento di Polizia di New York nel 2022: varie pratiche di sorveglianza digitale hanno riguardato il movimento sin dagli albori, venendo spesso a coincidere con i discorsi e le pratiche del cosiddetto “anti-terrorismo”. In questo senso, se uno degli sviluppi più recenti proviene, ad esempio, dalle indagini sulle pratiche di sorveglianza adottate nei confronti dei partecipanti all’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, e cioè con lo spettro della sorveglianza che arriva a includere anche i movimenti del suprematismo razzista bianco, ciò non deve tuttavia portare a facili conclusioni su una possibile neutralità delle tecnologie e politiche di sorveglianza.

Come dimostra Simone Browne in Materie oscure / Dark Matters  – uno dei testi, originariamente pubblicati nel 2015, divenuti classici nella letteratura specializzata in materia, e ora tradotto per Meltemi nella collana curata dal gruppo di ricerca Ippolita (pag. 268, Euro 20.00) – la storia della sorveglianza nera ha tratti di specificità che si ricollegano agli albori del cosiddetto “Atlantico nero” – per usare la fortunata espressione coniata da uno dei pilastri degli studi postcoloniali contemporanei, Paul Gilroy – e nei secoli successivi hanno espanso e affinato la loro capacità informativa e, soprattutto, repressiva. Uno snodo cruciale, infatti, è il «primo documento emesso dal governo per regolamentare la migrazione al confine tra Stati Uniti e Canada che associa esplicitamente i tratti corporei al diritto della libera circolazione» (p. 106), ovvero il Book of Negroes (1783), registro di almeno tremila schiavi auto-emancipati che cercarono di raggiungere il Canada durante l’evacuazione di New York ordinata ai lealisti della corona britannica a seguito dell’indipendenza degli Stati Uniti.

Ricostruire l’insieme delle pratiche connesse al Book of Negroes permette di stabilire un lungo percorso, attraverso i secoli, che arriva fino al «teatro della sicurezza nell’aeroporto» (p. 207) così com’è stato implementato dalle politiche di sorveglianza e controllo successive al 9/11. Come osserva Browne, «[l]e attuali tecnologie biometriche e la marchiatura degli schiavi, ovviamente, non sono la stessa cosa. Eppure, se pensiamo alla nostra contemporaneità in cui i cittadini “sospetti”, i viaggiatori che hanno dato la prova di essere fidati, i prigionieri, i beneficiari di assistenza sociale e altri soggetti vengono ridotti a pacchetti di informazioni e stoccati in immensi database, gestiti dallo Stato o di proprietà di grandi aziende private, in cui confluiscono tutti i dati raccolti su grande scala, ci troviamo di fronte a pratiche di contabilizzazione del corpo» (p. 205) – contabilizzazione che, in termini concettuali generali, non dista molto dalle pratiche di controllo e gestione dei corpi dell’economia schiavista.

Da questo scenario, scaturisce, per Browne, l’«invito [a] mettere in discussione il funzionamento storicamente esistente di una sorveglianza basata sul marchio e la razzializzazione, in particolare per quanto riguarda la biometria, per ripensare in modo critico la punizione, la tortura e i momenti di contatto con i nostri confini sempre più tecnologici. Questo è particolarmente importante viste le capacità di identificazione biometrica non cooperativa attraverso l’informatica indossabile, come i Google Glass…» (p. 205).

Come si può notare, quindi, l’indagine di Browne si sofferma sulle origini dell’ideologia e delle prassi securitarie che ormai caratterizzano in modo pervasivo i primi decenni del XXI secolo, prendendo a modello, fra gli altri, un episodio meno rilevante, ma assai mediatizzato, come la perquisizione della pettinatura afro di Solange Knowles (sorella di Beyoncé, ma famosa quanto lei, almeno negli Stati Uniti) nel 2012, all’aeroporto di Miami, alla ricerca, assai improbabile, di esplosivi. Variamente anticipata da film della blaxpoitation con Pam Grier, come Coffy (1973), e da alcune notizie riguardanti la morte del militante delle Black Panthers George Jackson, nel 1971, la “pericolosità” della pettinatura afro era già stata analizzata ben prima del 9/11 da un importante studioso Black British, Kobena Mercer, in un saggio contenuto in Welcome to the Jungle (1994). Se la dinamica sembra ripetersi rimodulata all’interno delle politiche securitarie “anti-terrorismo” (con tutte le indebite sovrapposizioni che questo origina, rispetto alla storia afroamericana), pare opportuno segnalare come negli ultimi anni la presenza della «identificazione biometrica non cooperativa» sia andata diffondendosi a macchia d’olio.

Negli ultimi cinque anni, in particolare, si è aperto un dibattito – supportato da diverse ricerche scientifiche, come conferma la MIT Technology Review – sui bias razzisti degli algoritmi usati per il riconoscimento facciale, una tecnologia biometrica che sconta tutti i limiti di quel racial profiling poliziesco – denunciato ormai da decenni, negli Stati Uniti, come fattore determinante negli episodi di violenza contro individui appartenenti alle comunità black, che si ritrova, in una sorta di circolo vizioso e autoalimentante, a contribuire alla costituzione dei dataset sui quali si basa proprio il riconoscimento facciale.

In questo scenario, i dataset scandagliati dalle intelligenze artificiali – che restano, ora, in mano rigorosamente privata – rappresentano un’amplificazione sostanziale ed esponenziale degli archivi analizzati da Browne nel suo studio della storia coloniale e schiavista degli Stati Uniti, in quanto sfruttano l’attraversamento di enormi aree inaccessibili e imperscrutabili allo sguardo e all’azione umana. Con ciò, non si intende sottolineare l’annichilimento delle possibilità di contrasto e di resistenza – rischio, tuttavia sempre presente all’interno di una critica che resta di stampo foucaultiano (nonostante, e anzi proprio in virtù del prezioso approfondimento delle relazioni tra l’opera di Fanon e quella di Foucault proposto, in apertura di volume, da Browne), in mancanza di ulteriori dialettizzazioni di tale concezione di potere. Piuttosto, pare che la critica dell’ideologia securitaria o l’analisi dell’intreccio tra potere e sorveglianza dovrà necessariamente sostentarsi delle attuali ricerche sulle intelligenze artificiali per continuare – sulla spinta di un contributo determinante come quello di Browne – a decostruire il presupposto della superiore neutralità delle tecniche di sorveglianza, indicandone ancora la matrice colonialista, schiavista e razzista. E dovrà farlo a lungo.