Chav è uno di quei libri che pone problemi, prima ancora che letterari, chiaramente filosofici. Posso io, bianco, eterosessuale, proveniente dalla middle class e altamente scolarizzato esprimere un giudizio scevro (realmente) da pregiudizi e, allo stesso tempo, fondato criticamente su un “oggetto narrativo non identificato” che dà voce a un lumpenproletariat dei nostri giorni? Posso dirmi al riparo da quella serie di riflessioni e tic del pensiero che appartengono alla mia classe di provenienza, alle differenti categorie e sottocategorie sociali nelle quali potrei rientrare? Forse queste domande e questi dubbi sono il lascito più importante di Chav: se l’obiettivo dell’autore, D. Hunter, era far esitare (ancor di più, in quest’epoca d’incertezza) i lettori bianchi e della classe media, sottrarre loro alcune certezze a partire dalle quali – seppur assottigliatesi nel corso degli anni – continuano a giudicare la società occidentale, bene, l’obiettivo può dirsi raggiunto.
Chav però solleva anche altri interrogativi, letterari e politici. I brevi capitoli che strutturano la trama del racconto vedono il narratore compiere un processo di emancipazione, lento, parziale, contrastato, non lineare, eppure innegabile e sorprendente: proveniente dalla periferia di Nottingham, con alle spalle una famiglia d’origini rom, un padre sconosciuto e una madre sex worker con dipendenze da alcol e droga, il protagonista autobiografico riesce a percorrere una strada che i sociologi più deterministi non avrebbero senz’altro mai immaginato. La famiglia è quanto di più accogliente e solidale egli possa immaginare — una sorta di comunismo primordiale, a cui sottostanno tutti i membri tranne il nonno —, ma allo stesso tempo tollera le violenze sessuali perpetrate ai danni dei bambini della propria cerchia e organizza incontri clandestini di boxe tra cugini adolescenti.
Il destino della voce narrante sembra già scritto: droga, criminalità, prigione, emarginazione, una fine violenta (suicidio o omicidio), eppure un tassello di quel mosaico si perde e costringe a modificare tutta la composizione. In un ospedale psichiatrico, mentre prova a disintossicarsi, il protagonista compie una formazione letterario filosofica in maniera autonoma, un’avventura intellettuale senza guide e imbeccate: legge quello che trova, Gramsci, Davis, Wright Mills, Jackson, Allison e altre letture verranno negli anni successivi, quando frequenterà prima il college e poi, addirittura, l’università.
La traiettoria sociale prende così un altro corso e le riflessioni che hanno accompagnato il protagonista nella sua formazione intellettuale lo portano, in maniera naturale, all’impegno politico diretto, alla militanza. È qui però che egli si rende conto dello scarto di classe che separa i militanti, nella maggior parte bianchi, istruiti, appartenenti alla classe media, eterosessuali, dagli ultimi, cioè coloro per i quali vengono portate avanti le battaglie politiche. Chav diventa così una riflessione, assai critica, sulla sinistra inglese: il protagonista avanza critiche al partito, ma anche ai sindacati e alle organizzazioni militanti che popolano il panorama politico di questi anni. E, da lettore italiano, le stesse critiche possono essere utili per mettere in discussione il nostro sistema partitico, la frattura che si vive, anche dalle nostre parti, tra la classe sociale più svantaggiata e l’aristocrazia parlamentare.
Vengo però al punto principale: Chav è un testo ibrido, come molti altri che abbiamo visto pubblicare negli ultimi anni in Italia e altrove, proprio come gli altri due titoli della collana “Working class” di Alegre (con l’unica differenza, ma importante, che stavolta si tratta dell’Inghilterra e non della Toscana di Simona Baldanzi o dell’Emilia-Romagna di Valerio Monteventi). Si mescolano e sovrappongono riflessioni critico-teoriche, spunti narrativi, pagine autobiografiche. Nel complesso il testo offre un punto di vista molto originale che raramente s’incontra nel panorama editoriale. Ma oltre ai complimenti e alle meritate lodi da tessere al coraggio e alla lungimiranza di Alegre (e, in particolare, di Alberto Prunetti che dirige la collana), bisogna però notare che siamo in presenza di un romanzo dal potenziale enorme, che però non viene sfruttato a pieno. Hunter è un serbatoio carico di benzina che però viene utilizzato come un accendino e non come una molotov, dove il problema è l’eccessiva tensione teorica. Perché spiegare quando si potrebbe affidare la comprensione al racconto? Perché castrare il lettore pur di essere sicuro che abbia capito la critica al Partito laburista? Hunter racconta di un mondo sconosciuto alla maggior parte dei lettori, il sottoscritto compreso, lo pone dinanzi ad alcune logiche relazionali difficili da capire o anche solo immaginare al lettore della famigerata classe media, come la “solidarietà coatta” che dà il sottotitolo al libro, ovvero dei coatti, il sottoproletariato spesso arrogante e prepotente, ma anche una solidarietà che s’impone, che diviene necessaria, unica soluzione per districarsi tra le difficoltà che la società impone ai più poveri.
Le pagine più intense e belle sono quelle in cui Hunter racconta storie di vita vissuta: le rapine, la prostituzione, le storie di droga, il carcere, oppure quando dipinge quadretti familiari che mettono i brividi. Un esempio su tutti, il racconto del periodo in cui la madre – in un tentativo estremo di fuggire la depressione e la violenza – inizia a percorrere chilometri insieme ai figli, senza una meta e senza un soldo, avendo il proprio corpo come unica fonte di reddito, costretta a prostituirsi davanti alla prole, sul cofano dell’auto. Spesso si dice che la fantasia non possa arrivare a immaginare livelli di realtà talmente degradati da sembrare frutto di una mente perversa; leggendo Chav si ha la sensazione di aver sacrificato questo materiale nel tentativo di scrivere un libro che non è né un saggio, né un romanzo, ma neanche uno di quei testi ibridi, capolavori d’equilibrio, che hanno segnato la fortuna del non-fiction novel e che oggi sono molto imitati, ma raramente riusciti. Ci troviamo dunque di fronte a un’opera bifronte: capolavoro narrativo e saggistica rabberciata, in cui alla rappresentazione dirompente segue sempre l’esplicazione e il commento. Nonostante questi limiti, Chav rimane un testo che si deve leggere, se non altro per il sano esercizio del rimettersi in discussione, per far vacillare alcune certezze e anche per osservare una realtà talmente dura da essere difficilmente immaginabile.