“Mostrare semplicemente, pensare scientificamente” era stato un efficace slogan che capeggiava nella copertina di un numero di “Sapere” degli anni Ottanta. Era quello un numero della rivista dedicato alla divulgazione scientifica e alle sue contraddizioni che si affiancava alle monografie di indagine militante sul nucleare, il lavoro e la salute, il diffondersi delle tecnologie nella società, la difesa dell’ambiente come disciplina scientifica. Nell’idea prima di Giulio Alfredo Maccacaro e Giovanni Cesareo – un epidemiologo e un sociologo – e poi di Carlo Bernardini e Francesco Lenci, un fisico e un chimico, per offrire discussioni e inchieste ai movimenti reali che si sviluppavano nella società di quegli anni: operai, studenti, abitanti di aree specifiche, pazienti. Soprattutto Maccacaro diffondeva con coraggio e ostinazione l’idea di una cultura scientifica interdisciplinare e militante che si affiancasse alle lotte politiche e sociali per elevarne le capacità critiche e stabilire alleanze inedite e combattive. Una strategia che richiedeva di vincere sia una tradizionale e diffusa ostilità verso la scienza, sia l’illusione che esistessero due culture indipendenti e capaci di percorrere strade che non s’intersecavano, come denunciava già Charles P. Snow nel 1959 con il suo saggio intitolato proprio Le due culture.
Scienziate visionarie si muove nella prospettiva di creare una cultura diffusa esponendo la scienza in maniera semplice, evitando gli specialismi, ma mantenendo il rigore che richiede per continuare a essere discorso scientifico, seppure in una forma discorsiva e accessibile. Un equilibrio sempre difficile, forse anche parziale tradimento di un rigore scientifico che rischia di assurgere a mito, ma divulgare la scienza richiede sempre una duplice sensibilità, perché mette in relazione categorie umane diverse, come gli scienziati e i non-scienziati, talvolta con diversificate e complesse specializzazioni, ma più spesso si rivolge a chi ha una spontanea curiosità per il mondo naturale e le sue leggi, ma non ne conosce gli specifici linguaggi.
In questo libro la volontà di “mostrare semplicemente” è declinata nell’offrire una panoramica della vita di dieci scienziate che hanno lavorato nei campi interconnessi di scienza, responsabilità sociale e attenzione ambientale. Forse si tratta di donne poco note ma le biografie ricostruiscono e testimoniano l’importanza del loro contributo scientifico e la ricaduta nella cultura e nella capacità di innescare cambiamenti enormi. Inoltre, ed è uno dei percorsi obbligati del libro, il racconto della costante minimizzazione dell’apporto scientifico delle donne nella ricerca sembra legarsi, oltre alle storiche tecniche escludenti del patriarcato, anche a un approccio originale nella loro visione della scienza. In un altro campo, vale la pena di ricordare il caso di Rosalind Franklin, le cui ricerche furono fondamentali per la scoperta della struttura molecolare degli acidi nucleici, e che invece è stata attribuita solo alla triade maschile Crick, Watson e Wilkins. E ricordare il caso di Lise Meitner, che all’Università di Berlino era stata fondamentale negli esperimenti di Otto Hahn nella fissione degli atomi pesanti, con cui vinse il Nobel per la chimica.
Ognuna di queste dieci vite descritte nel libro ha affrontato enormi difficoltà, sia per la diffusa discriminazione di genere sia per la scelta di fare scienza in settori che non erano di moda o che confliggevano direttamente con le strutture di potere delle società in cui operavano. Quartieri degradati, fabbriche, foreste oggetto di disboscamenti, fasce di povertà, carestie, inquinamento radioattivo, consumismo e produzione di rifiuti, attribuiscono immediatamente una marcatura politica alle loro ricerche che sarà destinata a rendere più difficile il riconoscimento del loro lavoro e che le porterà a professare apertamente posizioni pacifiste, ecologiste, antisessiste, collegandosi ai movimenti politici e di protesta delle società di appartenenza. A partire da Donella Meadows, chimica e biofisica che tra i primi ha affrontato il tema dei limiti dello sviluppo, l’approccio è caratterizzato dall’idea di una elevata interconnessione tra i problemi del pianeta e dalla consapevolezza che solo lo sforzo di una visione complessiva può portare a dei risultati concreti. Nel caso di Meadows e della sua ricerca, il fattore di successo è stato di superare un approccio riduzionista e valutare il problema attraverso una collaborazione di discipline, come l’economia e la politica. Il caso di Alice Hamilton, invece, è significativo per l’impegno etico che l’ha spinta a strutturare una disciplina come la medicina del lavoro e delle comunità che nella scienza a dominanza maschile neppure esisteva. Hamilton sviluppa il concetto di malattia industriale e si accorge di come l’organizzazione capitalista del lavoro faccia leva sulle differenze etniche e di genere per gestire salari più bassi e condizioni di lavoro pericolose e nocive alla salute. È un lavoro che si svolge nella prima parte del Novecento ma che, nonostante le difficoltà incontrate da una scienziata costretta ad agire in ambienti ostili e prevenuti, riesce a ottenere riconoscimenti ai livelli più alti dell’organizzazione federale degli Stati Uniti.
Avanti e indietro nel tempo, la ricostruzione della vita di Jophine Baker, laureata al Women’s Medical College di New York, la prima istituzione dedicata interamente alla formazione delle donne medico, è la straordinaria dimostrazione di quel crocevia che, quasi un secolo dopo, ha caratterizzato lo sviluppo della “Critical race theory” e del concetto di l’intersezionalità, ovvero come il meccanismo della diseguaglianza, basato sul progetto di mantenere e governare la società, operi attraverso interconnessioni di etnia, classe, genere e disabilità. Le università e le scuole di specializzazione in medicina che una donna statunitense di fine Ottocento può frequentare sono pochissime e orientate all’infanzia, ed è da un ambulatorio posizionato nei bassifondi di Boston che Baker riesce a comprendere il legame oggi dato per scontato tra povertà e salute. La sua vita prosegue a Hell’s Kitchen, lavorando sulla vaccinazione del vaiolo e l’isolamento dei bambini infetti da malattie contagiose, ma il suo impegno si amplia verso l’inquinamento prodotto dalle fabbriche che operano a fianco delle abitazioni, verso il sovraffollamento, la povertà, le epidemie di tifo, individuando i determinanti di molte patologie, in analogia all’approccio di Alice Hamilton per le malattie professionali. È a lei che si deve il consolidarsi di un nuovo approccio alla medicina, quello di prevenire le malattie e non solo di curarne le fasi morbose, ma dovrà anche affrontare gli attacchi egoisti delle lobbies dei medici, che consideravano l’igiene pubblica un danno per i loro profitti.
Un ultimo sguardo alla visione di Susanne Simard, studiosa forestale contemporanea, lasciando alla lettura le altre esperienze descritte nel volume. Visione che, come conferma questo saggio, in sintonia con l’accezione inglese, non rappresenta tanto vedere qualcosa che non esiste per motivi patologici, quanto una propensione alla creatività e all’innovazione, a disporre di punti di vista innovativi e spesso in contrasto con le convinzioni consolidate degli scienziati. Affrontando il deperimento delle foreste nel British Columbia canadese, aree sottoposte a tagli e rimboschimenti a scopo industriale, Simard si trova ad affrontare una credenza consolidata nel settore, ovvero che la crescita degli ontani sia negativa per lo sviluppo dei pini o, in altre foreste, che ci sia competizione tra betulle e abeti. La sua ipotesi si basa su una critica del paradigma della competizione come meccanismo totale per introdurre modelli di collaborazione che, nel caso dei suoi studi, interessano azioni e scambi sotterranei tra gli alberi. Scopre infatti che sono proprio gli ontani a combattere lo stress idrico dei pini fornendo azoto e producendo un reindirizzamento delle acque. Inoltre si deve a Simard la scoperta della funzione delle reti di micorrize che collegano le radici degli alberi di una foresta all’interno di sistemi che sono costituiti da un hub tree, anche chiamato “albero madre”. Questi alberi più grandi aiutano gli alberi più piccoli fornendo loro i nutrienti necessari attraverso la rete sotterranea, come carbonio e azoto. È questa un’idea in competizione con il modello standard della foresta che considera i singoli alberi come elementi autonomi e la cui vicinanza, al massimo, sottrae luce e sostanze agli alberi adiacenti. Dopo le scoperte di Simard, il modello biologico del bosco ha radicalmente cambiato la sua geometria profilandosi più come un network in cui è molto sviluppato lo scambio dei nutrienti.
Scienziate visionarie ci suggerisce che, all’interno di sistematiche difficoltà sociali e accademiche ancora attive, alcune donne hanno insistito e lottato per una scienza globale, interconnessa e interdisciplinare, collegata al mondo della vita e attenta alla realtà sociale delle diseguaglianze, capace di uno sguardo fuori dagli schemi.