Ritratto di donna, l’ultimo romanzo di Cristian Mannu è un titolo declinato al singolare, sebbene il romanzo ci racconti le vicissitudini di due donne, madre e figlia. Potremmo supporre che l’utilizzo del sostantivo singolare stia a indicare che esse si identifichino fino a fondersi in un’unica identità; oppure, al contrario, potremmo pensare che lo svolgimento narrativo in sezioni ben distinte, separi nettamente le due donne, isolandole. In realtà (ma ciò si paleserà solo al termine della storia) saremo più propensi a credere che l’autore utilizzi la definizione di “donna” attribuendole una valenza universale, unica e più ampia, per arrivare a narrarci un mondo assoluto e complesso che fin da bambino lo affascina. Dichiarerà infatti in un’intervista: “Già da quando ero bambino osservavo mia sorella e mia madre, cercavo di carpire i segreti del loro rapporto che mi sembrava allo stesso tempo così intimo e conflittuale, più del mio con entrambe”.
Il romanzo è costituito da capitoli i cui titoli richiamano lo stile di una composizione musicale alla quale si aggiungono dettagli propri delle arti visive: movimento #1-chiaroscuri e colori, in cui una voce narrante ci racconta la vita della figlia; movimento #2-cornici e luci, in cui la madre in prima persona racconta la sua vita; e l’ultimo, movimento #3-riflessi, che sembra congiungere in poche pagine le prime due parti, facendoci intravedere, nei riflessi per l’appunto, la somma dei colori e delle luci dei precedenti accadimenti, e in particolare la motivazione per cui madre e figlia non potranno più incontrarsi: “Pensò all’acqua che scorre, alla sabbia che scende da una clessidra, a ciò che non torna, al destino”.
È molto interessante osservare l’afflato che l’autore utilizza per esplorare le differenti emozioni delle due donne: scrivendo della vita della figlia (per la quale ha anche utilizzato un numero decisamente superiore di pagine), ha necessità di raccontarne l’esperienza utilizzando un filtro, puntando l’obiettivo per metterne a fuoco il vissuto, con l’urgenza di raccontare ciò che osserva ma al contempo l’esigenza di porvi una distanza. Quando racconta della madre, cambia radicalmente registro e si racconta in prima persona, identificandosi con la sua protagonista, mostrandoci la propria soggettività, per farsi carico, consapevolmente, delle proprie responsabilità genitoriali, e desiderando dire alla propria figlia: accoglimi ora, questo è ciò che ho vissuto, la mia vita, gioie e dolori, e che tu, bambina e poi adolescente, non potevi comprendere, né mai ti ho raccontato. È così che ti ho protetta, ti ho difesa, ti ho amata.
In entrambi i ruoli, di osservatore e di narratore, Mannu entra nel privato di quel mondo con un soffio delicato, rendendosi portavoce dell’interiorità femminile con profonda sensibilità. Ritratto di donna è la storia di una famiglia sarda, madre e figlia e un padre che negli anni si trasferirà a Parigi, creandosi là una nuova vita. La morte lo troverà però, giovane, nel suo luogo natìo, su una strada che ben conosce. E se a questo funesto accadimento accostiamo il fatto che nel romanzo le immagini del mondo maschile, restituite dall’autore, sembrano appartenere a uomini caratterialmente sconfitti, violenti o traditori, oppure codardi nelle loro scelte di vita, allora la morte del padre in Sardegna acquisisce un preciso significato di appartenenza, a quella terra e alla sua famiglia, sottolineando ancor più che la vera dimora dovesse essere a casa sua, non altrove. La figlia dopo l’incidente si sente tradita dalla vita e inizia a detestare la madre, rifiutando le sue debolezze, le sue lacrime, addossandole ogni responsabilità. E scappa via, in cerca di sé stessa, rigettando le proprie radici, non avendo capito come sia impossibile fuggire da sé stessi: dirà l’autore: “A niente ti è servito voltare le spalle, partire, andare. Hai portato con te quello che avresti voluto lasciare. E non è diventato più lieve”. Tornerà sull’isola solo perché le comunicheranno che la madre ha avuto un malore ed è in fin di vita: ironia della sorte, il giorno dopo lei sarebbe dovuta partire per Parigi per incontrare la figlia, dopo decenni di lontananza.
Mannu ha scritto un romanzo sulle distanze e sui solchi incolmabili che il cuore costruisce quando diventa caparbio e irremovibile nelle proprie intenzioni. Ma è al contempo un romanzo sul desiderio intimo di volersi affidare alla vita, poiché mentre un legame affettivo si dissolve (e una madre muore) spontaneamente se ne crea uno diverso e nuovo, imprevisto e tutto da scoprire, tra due sorelle che non si conoscevano ma che si scoprono fin da subito affini. Così, con un movimento istintivo verso il futuro e l’ignoto, si generano nuove possibilità nei rapporti umani, e l’entrata in scena di una terza donna nelle ultime pagine, manifesta compiutamente il sentimento della speranza (e della fede?), il significato ultimo di Ritratto di donna: “Le mani, i capelli, i vestiti iniziarono a fondersi, a unirsi, a creare qualcosa di nuovo: un minuscolo e vivo ritratto di donna”.