Quando il Gattopardo, attraversando le epoche, incrocia le storie “naturali” di Andrea Camilleri e il giovane sguardo di una scrittrice che davanti a un Palazzo nobile, al suo teatro, ne assume interamente i simboli, le cucine imperiali, i colori incrostati di tenacia della più intensa sicilianità, cosa accade? Cosa ci assale, dall’isola, attraversando l’esteso lago del Mediterraneo? Cosa resta dell’Ottocento borbonico e dei casati di Ibla, ritrovandosi in mezzo a un secolo che appare impazzito e scompaginato da visioni non più terrestri? Donnafugata è tempo e luogo, è gente la cui carne ha sapori e odori di terra aspra e arie fresche e pungenti. Le generazioni parlano fra loro, s’avviluppano di narrazioni e dialettiche dove il sacro si allea al quotidiano, finendo a piene mani nel mito. I patriarchi contrastano il proprio invecchiamento, però offrono passato e sapere ai rampolli, insegnano loro a guardare per bene la terra benedetta, a aspirare contentezza sulle strade aperte alla luce, a parlarsi chiaro fra le diverse stirpi, aristocratiche e contadine. Conosco da molti anni una poetessa palermitana: i suoi versi sono spesso intessuti di fragori dialettali, riportano su carta la voce della bellissima madre, e mettono ordine in un parlato che affabula e ricorda con arditezza i racconti antichi della sua terra isolana. Un altro incrocio di luoghi e persone che annullano il tempo, e tutti siedono al tavolo imbandito di squisitezze e di fendenti di luce dritta.
Donnafugata è un romanzo che sembra emerso dai taccuini privati del barone Corrado Arezzo De Spucches: dai suoi esordi nella vita, bambino inquieto e curiosissimo, al suo essere anno dopo anno marito, padre e nonno. E tutt’intorno, “fimmini” che attraversano il secolo tra fierezze popolari, attimi di gioia e dolori indurenti gli animi. È l’Ottocento della Sicilia, il suo tempo rinserra i casati e trascorre poco indulgente verso l’aristocrazia. Ma la nobiltà dei caratteri spesso rimane. Si fa comunità, dando agio a scrittori e poeti, antichi e moderni, scomparsi o ancora presenti sulla scena, come la poetessa palermitana. E Costanza DiQuattro, direttrice dell’antico teatro familiare di Donnafugata, riportato all’antico splendore e ora inserito in questo romanzo che seduce per l’intreccio vigoroso e solido di amori e storia.
La conquista dell’autrice di luci e odori siciliani diventa la conquista del lettore mentre si ritrova improvvisamente immerso in un paesaggio custodito più che altrove. I sentimenti forti dei protagonisti si riversano dominanti nella realtà attuale, e diventano una culla primordiale, qualcosa che sembrava scomparso ma che ritorna deciso nelle discendenze. Nel Castello di Donnafugata non ci sono fantasmi, Costanza DiQuattro sa farvi muovere attori che non sono più attori ma i veri protagonisti che sanno tutto della loro storia e della loro terra. Resta da arricchirsi del profumo di un roseto, i cui fiori diventano presenze che pennellano l’intero romanzo, carnosi e resistenti proprio come le donne e gli uomini di Donnafugata. Non necessario essere poeti o poetesse per scoprire questo mistero floreale. Perché questo è il giardino.