Cosa può un libro. Il caso di Marco Boba

Oltre la censura che colpisce libri e autori e considera il lettore un incapace da proteggere, quando un libro si appiccica al suo autore come una aggravante. Il caso di Marco Boba cui si imputa di essere l'autore del romanzo 'Io non sono come voi' pubblicato da Eris Edizioni per decidere in Tribunale della sua presunta 'pericolosità sociale'.

Phillis Wheatley era una schiava. Nata in Senegal nel 1753 e venduta negli Stati Uniti intorno ai sei sette anni. Il nome, Phillis, l’aveva preso dalla nave negriera su chi era stata trasportata, il cognome, Wheatley, dalla ricca famiglia di Boston che l’aveva comprata.

A 14 anni Phillis Wheatley scriveva la sua prima poesia, a 19 anni pubblica la sua prima raccolta di poesie. Inaudito! Come si poteva credere che una giovane donna schiava potesse scrivere poemi “presa da un intrinseco ardore” e per di più sostenendo che “la Musa promette di assistere la mia penna” e quindi avere l’ardire di rivolgersi non ad altre serve ma all’élite letteraria e culturale, che, si sa, le muse sono esclusive?

Infatti non le credono: una schiava nera adolescente che non ha neanche un nome proprio scrive poesie? Deve presentarsi in Tribunale di fronte a una commissione di esperti che la valutano e alla fine le accreditano l’opera. Il libro esce quindi con un frontespizio che ne certifica l’attribuzione.

I grandi uomini del suo secolo si dividono. Gli antischiavisti pensano che il genio di Phillis Wheatley sia la prova dell’umanità dei neri, ma Samuel Johnson la paragona a un pechinese ammaestrato e Thomas Jefferson aggiunge che le sue poesie sono “al di sotto della dignità della critica”[1].

Veniamo a oggi.

Se Phillis Wheatley doveva dimostrare che quel libro le apparteneva e che sì: l’aveva scritto una schiava alla quale non era riconosciuta ‘personalità umana’, a Marco Boba, anarchico torinese e redattore di Radio Blackout, il romanzo che ha scritto gli si appiccica addosso come aggravante della sua personalità.

La prima deve dunque dimostrare di essere una persona e non un autore inventato, il secondo di non essere il personaggio di fantasia di un suo romanzo.

Il Tribunale di sorveglianza di Torino che il 21 aprile si esprimerà sulle misure di sorveglianza speciale (un calco del codice Rocco) da applicare a Marco Boba, infatti, elenca – come aggravante – il romanzo Io non sono come voi, scritto sei anni fa e uscito per le Eris edizioni.

L’attenzione si appunta in particolare sulla frase riportata nella quarta di copertina: “Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta.”

Una frase che ben riassume il carattere del protagonista, Francesco detto Ciccio, un personaggio anomalo, violento sicuramente, pieno di malessere, odio – per l’appunto – e negatività.

La letteratura è piena di personaggi tremendamente negativi (che per inciso non vorremmo incontrare nella vita reale) dal pedofilo manipolatore Humbert Humbert, allo spaventoso Patrick Bateman di American Psyco, al sadico Santiago personaggio di un romanzo di cui si parla moltissimo in questi mesi, Le correzioni di Giulio Mozzi.

È libertà del lettore anche fantasticare sulla personalità degli autori di questi romanzi, chiedersi perché abbiano dato vita a simili personaggi, quale lato oscuro della propria personalità abbiano proiettato nella scrittura, fatto riverberare nella voce narrante, se abbiano prestato desideri nascosti ai personaggi.

Tutto questo fa parte della lettura e del patto fondativo sottinteso che recita – parafrasando Umberto Eco – che pur sapendo benissimo che quel che leggiamo è finzione, fin che ci stiamo dentro lo prendiamo per vero.

Un patto che, almeno dall’età moderna, è implicitamente noto al pubblico quanto agli autori ma che non ha impedito che i libri – anche i romanzi – siano stati soggetti a censura e i loro autori chiamati in Tribunale a difendersi fino all’obbligo, a volte, di mutilare la propria opera. È un lungo elenco che dai roghi eretici passa da Sade, Flaubert, Pasolini, Nabokov, non risparmia nemmeno un romanzo ‘innocuo’ come Il giovane Holden, per arrivare, in tempi più recenti a I versetti satanici di Salman Rushdie colpiti da una fatwa che tanto ha, giustamente, scandalizzato l’intero Occidente e l’Islamismo non radicale.

Eppure qui andiamo oltre; l’autore Marco Boba non viene messo sotto accusa per quel che ha scritto ma viceversa quel che ha scritto gli si appiccica addosso e lo definisce. Per esemplificare: a nessuno sarebbe venuto in mente di indagare Nabokov per pedofilia anche se gli si è imputato di aver scritto di un personaggio odioso e di aver propagandato la pedofilia. Lo stesso Pasolini non viene imputato perché bestemmia (ricordiamo che è un reato) o fa uso di turpiloquio, ma perché nel suo libro si bestemmia e si dicon parolacce. E certo Flaubert non viene accusato per i suoi intrecci amorosi e per aver rovinato famiglie.

Torniamo così alla giovane poetessa schiava e al militante torinese uniti in un paradosso.

In tutti e due i casi la scrittura, al di là dei contenuti, viene appiattita sulla persona, che per diversi aspetti è non conforme, e la definisce direttamente: un pechinese, o una scimmia che deve dimostrare di essere umana e di saper scrivere nel primo caso, un soggetto ‘socialmente pericoloso’ che deve emendarsi dalla propria immaginazione, nel secondo.

Se Phillis deve subire l’umiliazione di un certificato che garantisce per la sua scrittura a Marco Boba aspettano sanzioni e riduzioni dei diritti, anche per aver scritto un romanzo nonostante, nelle pagine finali, espliciti chiaramente che si tratta di un’opera di finzione, sottolineando che alcuni episodi violenti e di lotta di cui parla non si sono mai verificati nella realtà.

Phillis Wheatley aveva osato scrivere, per di più qualcosa che andava al di là del semplice memoir, a Marco Boba non viene riconosciuto il diritto che un militante anarchico possa scrivere un romanzo (quindi un’opera per definizione di finzione) senza che le parole e i pensieri che costruiscono la personalità di un personaggio vengano traslati direttamente nella sua stessa personalità e contribuiscano a definire la sua “pericolosità sociale”.

Siamo oltre la censura che colpisce libri e autori e considera il lettore un incapace da proteggere, uno che, chiuse le pagine del libro, sarebbe spinto in modo irrefrenabile ad imitare il protagonista di un romanzo.

Ora non siamo così ingenue da non sapere che i diritti non sono dati una volta per sempre e che nelle situazioni di disparità e di conflitto vengono piegati e stravolti. In particolare chi ruota intorno al movimento No Tav, come Marco Boba, è stato posto sotto inchiesta anche per le parole dette, ricordiamo Erri De Luca indagato e poi assolto per “istigazione al sabotaggio”  o qualche anno fa Roberta Chiroli che nella sua tesi di laurea sui movimenti contrari alla Tav aveva avuto il torto di usare la seconda persona plurale. Preoccupa però il silenzio degli intellettuali e dei lettori, perché la rottura del patto fra un’opera di finzione, il lettore e lo scrittore per mano di un tribunale ci riguarda. Tutti.

Il libro è un oggetto pericoloso, tutti conosciamo gli icastici versi di Brecht: Affamato, afferra il libro: è un’arma, un libro ha anche il potere di cambiare intimamente un lettore, il libro è sovversivo e mette in questione l’ordine delle cose, alza l’assicella di quel che si può scrivere… ma è proprio questa sua potenza scomoda e i sui autori che si devono difendere e avere caro.

[1] Alessandro Portelli, Canoni americani, Donzelli, 2004