Non mi sorprese nel ’90 l’uscita di Sentimenti dell’aldiqua, libro collettivo a cura di Paolo Virno ora riproposto da Derive Approdi[1]. Nell’’86 la stessa casa editrice, Theoria, aveva pubblicato di Virno Convenzione e materialismo, un fulmine a ciel sereno nel panorama filosofico di quegli anni. Ricordo di averlo letto come una risposta, la più efficace, all’ermeneutica del pensiero debole[2] e alla sua dismissione di ogni pensiero di emancipazione. Efficace come sola può esserlo la mossa del cavallo e infatti Virno ci restituiva un Heidegger della deiezione e dell’inautenticità dell’Esserci giocato contro quello dell’Essere e della Lichtung tanto caro ai pensatori deboli. E poi un Wittgenstein, quello del Tractatus, che sul rapporto linguaggio-capitalismo postfordista qualcosa da dire evidentemente ce l’aveva. Per non parlare dei classici, noti e meno noti, sollecitati a dire della grande trasformazione in corso nel modo di produrre e nelle forme di vita. Emblematico il caso di Berkeley e del suo convenzionalismo.
Ma è bene ricordare che la ricerca di Virno partiva da più lontano, dagli anni della rivista «metropoli», pensata e redatta alla fine degli anni Settanta da un gruppo di compagni che avevano attraversato il ’68 studentesco, l’autunno caldo operaio, la stagione di Potere operaio, dell’autonomia, del movimento del ’77 per incocciare alla fine il muro della persecuzione, della prigione e dell’esilio. Un frammento di Convenzione e materialismo l’avevamo letto proprio sull’ultimo numero della rivista nell’81, a giochi ormai fatti. Poche, pochissime le tracce della sconfitta in questo libro. Se ne prende atto, certo, ma non per disarmare. Sicché riconoscevi subito la buona scuola del marxismo critico con la sua urgenza a rispondere alla domanda di sempre: cosa ci sta accadendo attorno? E soprattutto: c’è anche un modo di conoscere la tendenza, di conoscere la trasformabilità dell’esistente?[3] Domande che sentivamo nostre e siccome Convenzione e materialismo rispondeva ad entrambe e in più con un linguaggio filosofico affatto nuovo, anche il piacere della lettura fu grande.
La forza di questo pensiero? Che riconosceva la formidabile presa della nuova ragione liberista sulla società tutta senza nulla patire dal confronto diretto, procedendo anzi a una sua decostruzione in chiave materialista. Anche il pensiero debole non si era sottratto al confronto e di quella ragione – una figura attuale di pensiero forte ché altre ce n’erano state nella storia plurisecolare della modernità – aveva sottolineato il tratto più caratteristico e paradossale: di muoversi sulla scena del mondo come un rullo compressore senza suscitare la benché minima reazione. E infatti, secondo Pier Aldo Rovatti, un maître à penser della scuola, è “nella normalità quotidiana”[4] che dobbiamo cercare la forma del potere della ragione neoliberista. Il segreto? Il suo convenzionalismo, quel procedere per astrazione e automatismi che semplificano la vita in direzione di regole note. Subiremo quel potere senza sapere con chi prendercela visto che il prete, il tiranno, lo stesso principio di autorità sono già fuori di scena. La paura e la pigrizia farebbero poi la loro parte.
Convenzione e materialismo condivide la prima parte di questa diagnosi mentre respinge al mittente la seconda che Rovatti formula in questi termini nel mentre il suo pensiero corre alla profezia nietzschiana dell’ultimo uomo: “Una battaglia contro un simile “pensiero forte” pare ormai anacronistica”[5].
Durante i quattro anni che separano Sentimenti dell’aldiqua da Convenzione e materialismo quelli di «metropoli» non avevano smesso di pensare a una possibile rivincita. Questa volta attraverso le pagine culturali de “Il Manifesto” e anche qua e là, in pubblici convegni e con una fitta attività seminariale. Sentimenti dell’aldiqua raccoglieva i frutti di quel rinnovato impegno. Chi non pensava che tutto era finito, non poteva non condividere il loro sforzo e la loro voglia di rivincita. Però, gira e rigira, il libro restava al di qua delle aspettative. Il tanto sospirato cambio di paradigma vi era solo alluso. Delle numerose voci ivi raccolte, sole alcune, ricordo, suscitarono la mia curiosità. Le altre, del «cattivo nuovo»[6] ripetevano cose già dette e risapute dai tempi di «metropoli», solo presentate con raffinata eleganza accademica. No, decisamente Convenzione e materialismo di cui Sentimenti avrebbe dovuto essere il compimento, era un’altra cosa nonostante il rinnovato sforzo di Virno di pensare per la soggettività postfordista (pure gravata da sentimenti negativi, “del disincanto”, come qui li chiama[7]) una via d’uscita dalla gabbia d’acciaio del post fordismo. Ed ecco allora per la prima volta (?) la fatidica parolina, nome comune ma non tanto: esodo indirizzata “a chi sogna la rivolta”[8]. Si badi, non la rivoluzione ma la rivolta. C’era di che riflettere.
Chi non la credeva possibile e neanche auspicabile era Rossana Rossanda. Stonava in quella silloge il suo pezzo. Vi risuonavano le note inconfondibili di uno spartito che da tempo avevamo smesso di ascoltare. Era quello di un marxismo storicista che aveva condizionato tutta la sua vicenda politica all’interno del Pci ma utile, il marxismo storicista, anche allo stesso Partito – la Rossanda ne era convinta – nel suo sforzo di rinnovamento intellettuale del Paese dopo la Liberazione. Ora non sfugge a Rossanda la portata della sconfitta e la rovinosa caduta degli stessi sindacati e partiti operai, le sacre icone di quella cultura.
È proprio questo marxismo che il pensiero debole aveva di mira perché strutturato alla stregua di un pensiero forte con la sua ragione, le sue certezze e garanzie e, soprattutto, il suo racconto di emancipazione. Che la Rossanda continua a difendere. In esso la sconfitta può essere solo momentanea, mai cesura che spezzi il continuum della storia e la sua linearità progressiva. Ma soprattutto grande considerazione per i vinti da parte di Rossanda, perché la sconfitta non è il torto della storia come credono Virno e i suoi, redivivi del vae victis, “talpe serpenti colombe dell’eversione strisciante”[9]. Nuovi barbari che ragionano per sentimenti e non con la testa. Su una cosa però la Rossanda ha ragione: che questi barbari non hanno elaborato il lutto per la dipartita del Soggetto anche al centro della sua narrazione storicista, un soggetto progettuale, con la testa ereditata da Rousseau e le gambe ben piantate nel modo di produzione, in felice contraddizione tra loro perché la testa è “autonoma per essenza” e le gambe sono “ingranate e mosse e spezzate al ritmo del capitale”[10]. Monstrum acefalo e monco è il nuovo soggetto, di Virno e compagni, appena abbozzato, disincantato sempre, proteiforme, politicamente un’incognita, in una parola una caricatura del primo.
Manca in questa nuova edizione di Sentimenti dell’aldiqua il testo di Giorgio Agamben che a suo tempo completava il panorama mentale del decennio. L’aver sottolineato per problemi editoriali le ragioni di quest’assenza non riempie evidentemente quel vuoto sicché il libro risulta irrimediabilmente dimidiato.
Agamben non era un nome allora familiare tra i compagni che poco sapevano e poco leggevano di temi linguistici e heideggeriani. Un filosofo per l’appunto heideggeriano e un tantino anarchico era quanto si diceva in giro, da non confondere però con Vattimo e Rovatti.
La comunità che viene è il suo primo scritto politico. Nell’economia del libro non stona affatto, anzi. Per la forma scelta dei dodici brevi trattati che lo compongono, per il linguaggio evocativo con cui sono scritti, per l’intenzione che sottende il tutto. Sì, perché contro il marxismo critico di Virno e quello storicistico della Rossanda c’era qui il tentativo di ripensare la politica fuori da queste due tradizioni di pensiero attingendo a filosofi ancora poco noti nel giro dei compagni come i francesi Nancy, Blanchot e soprattutto Debord. Ciò che immediatamente colpiva del titolo, era quella “comunità”, preferita a comunismo e quel “che viene” a dire che il progetto della nuova politica non riguardava il futuro ma il presente del capitalismo, più esattamente il suo compimento che Agamben pensa sempre in atto. A esprimerne l’urgenza è la comunità, pensata alla stregua del Messia della tradizione giudaico-cristiana. Quanto al come escludeva la rivoluzione sicché tutto era lasciato in sospeso.
Che il libro fosse datato apparve subito chiaro già nel ’90. La caduta del muro e l’implosione dell’Urss a distanza di appena un anno furono il cancellino sulla lavagna della storia. A essere hegeliani, potremmo dire che mai come in questo caso la storia era diventata il tribunale del mondo. Si voltava pagina.
Ma datato non significa superato perché troppo vecchio alla prova del tempo. Alla luce delle trasformazioni degli anni Novanta solo il pezzo della Rossanda appare tale; quanto agli altri, non solo non hanno perso lo smalto del tempo cui appartengono ma riescono anche a brillare di luce nuova. Evidentemente la disamina dei sentimenti di quell’età del disincanto, del «cattivo nuovo» di allora, ha tenuto. Quello che il libro nel suo complesso non poteva prevedere era invece la forma che la reazione a quella rassegnazione e acquiescenza avrebbe assunto nel nuovo decennio in giro per il mondo. Virno un nome glielo aveva dato ma allora era solo un nome.
[1] Marco Bascetta, Lapo Berti, Alessandra Castellani, Lucio Castellano, Andrea Colombo, Massimo De Carolis, Massimo Ilardi, Augusto Illuminati, Frano Piperno, Rossana Rossanda, Domenico Starnone, Paolo Virno, Sentimenti dell’aldiqua, DeriveApprodi, Bologna 2023.
[2] Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti (a cura di) Il pensiero debole, Feltrinelli Editore, Milano 1983.
[3] Intervista a P. Virno, 21 aprile 2001.
[4] Ivi, p. 45.
[5] Ivi, p. 44.
[6] Sentimenti dell’aldiqua, cit., p. 21.
[7] Ivi p. 24.
[8] Ivi p. 40.
[9] Ivi p. 147.
[10] Ivi p. 145.