Nel 1965 un misconosciuto giornalista che viveva nell’Oregon scrisse quasi dal nulla il romanzo che cambiò il futuro della narrativa d’anticipazione nel mondo. Frank Herbert pubblicò Dune quasi per sbaglio, con un editore che non sapeva nulla di science fiction, dopo molti rifiuti ricevuti dalle case più blasonate. Il risultato fu quanto di più sorprendente ci si potesse immaginare, e con il tempo la fama e la diffusione del romanzo non smisero mai di crescere. Dune è infatti un capolavoro assoluto, un romanzo totale che affronta ogni ambito del sapere umano. Fisica, ecologia, antropologia, religione, poesia, politica, musica, genetica, mistica, solo per citare i campi del sapere che sono evidentemente centrali nel romanzo. Frank Herbert è il deus ex machina di Arrakis e del mélange, rispettivamente il pianeta su cui accadono gli eventi narrati e la particolare droga prodotta solo in quel mondo, che ne rappresenta la fonte della grande ricchezza.
L’approccio di Herbert è innovativo e mai scontato in ognuno dei campi che tocca, sorprendendo il lettore a ogni nuova riga. L’asticella posta da quel primo romanzo risultò però a un’altezza tale che persino il suo stesso autore non riuscì più ad eguagliarne la potenza, nonostante i molteplici tentativi. Difatti sono ben sei i romanzi che compongono l’intero ciclo, a cui vanno aggiunti quelli scritti dal figlio, ma, sebbene i risultati siano comunque interessanti, la critica è concorde nel ritenere insuperato il primo volume. Frank Herbert non era laureato, non aveva una preparazione approfondita, né in campo scientifico né in quello umanistico. Non può essere considerato nemmeno un autodidatta, se si escludono alcune influenze che oggi vengono identificate dagli addetti ai lavori, come ad esempio Jung e il filosofo tedesco Heidegger.
Herbert a diciotto anni ha dovuto lasciare la casa paterna e ha raggiunto l’Oregon, nella disperata ricerca di un lavoro qualsiasi, di un modo per mangiare, senza alcuna ambizione intellettuale. Era quindi un uomo abituato alle privazioni, a dover lottare e dotato di un approccio concreto alla vita e alle sue problematiche. La sua biografia di quel periodo è abbastanza nota, e non presenta né particolari traumi, né momenti catartici. Forse fu il mondo fertile della West Coast negli anni Cinquanta, forse una sua particolare sensibilità letteraria e spirituale, forse certe conoscenze che lo avrebbero indirizzato verso la meditazione, fatto sta che Dune nacque dalla sua penna, e lo spirito di Paul Atreides, Muad’dib, il Mahdi, resta una anomalia assoluta, un personaggio inclassificabile, ancora ai nostri occhi, dopo oltre quarant’anni.
Oggi Denis Villeneuve sta per presentare alla mostra del cinema di Venezia la prima parte della sua versione del romanzo, ne è già prevista e in lavorazione la seconda, e alcune recenti interviste hanno annunciato il progetto di un terzo film, a cui va aggiunta una serie che uscirà in contemporanea su HBO e che dovrebbe essere una sorta di prequel. Dopo l’anteprima a Venezia, già il 16 settembre il film uscirà nei cinema in Italia e a ottobre negli USA, ma già oggi in libreria il lettore può trovare una recente edizione del romanzo, ristampata da Fanucci in una bella formula rilegata e con la copertina dedicata al film.
Sempre negli ultimi mesi è stato pubblicato da NPE editore un saggio di Filippo Rossi, Dune tra le sabbie del mito, che riunisce in oltre seicento pagine tutto ciò che serve sapere, sia sui romanzi che sui film. Opera davvero completa, è, almeno per il momento, unica in Italia. Del film sappiamo molto, dato che ormai da tempo si susseguono sui monitor dei fan teaser e trailer provenienti da ogni parte del mondo. Manifesti e fotografie hanno moltiplicato l’hype e tutto converge verso un qualcosa di eccelso, a cui d’altronde il regista ci ha abituato. Villeneuve è perfetto per Dune, nessuno tra i registi oggi attivi ha la sensibilità, oltre alla capacità e le risorse, per rendere lo spirito e la profondità che pervadono il romanzo di Herbert. Ovviamente vi sarà il rumore di fondo provocato delle contestazioni di alcune frange minoritarie, che non perderanno l’occasione per ribadire l’intoccabilità di una interpretazione piuttosto che di un’altra, dimostrando ancora una volta di non saper cogliere il valore globale di un’opera come Dune, e senza minimamente elevarsi dalle posizioni misere ed egocentriche che sostengono.
Denis Villeneuve non è il primo regista che si cimenta con l’opera di Herbert, sebbene solo il film di David Lynch, nonostante le problematiche con cui ha dovuto confrontarsi sia prima che dopo la sua realizzazione, sia giunto ad essere distribuito e visto nelle sale. Sarebbe ingiusto nei confronti di Lynch giudicarlo per quanto oggi vediamo. Purtroppo, non sapremo mai quale avrebbe potuto davvero essere il Dune di Lynch, originariamente di quattro ore, come lui stesso ha dichiarato, ma oggi deturpato dagli interventi della produzione. È invece da tempo conosciuta la lunga e infruttuosa gestazione del film che avrebbe dovuto essere diretto da Alejandro Jodorowsky. Il documentario che la racconta è nelle sale in questi giorni, ed è una eccellente descrizione della potenza visionaria del romanzo di Herbert.
Jodorowsky aveva costruito una macchina immaginifica senza pari, coinvolgendo quanto di più eccellente gli appariva del mondo dei primi anni Settanta. Moebius, Orson Wells, Mick Jagger, Salvador Dalì, Hans R. Giger, David Carradine, i Pink Floyd e Amanda Lear sono alcuni dei nomi che vennero coinvolti nell’impresa, e che giunse a un passo dalla realizzazione, crollando solo all’ultimo momento. Ciò che però è particolarmente rilevante è da un lato la distanza tra il lavoro di Herbert e quello di Jodorowsky, ma contemporaneamente la grande affinità tra le due opere. Questo è dovuto proprio alla potenza dell’immaginario contenuto, alla sua psicomagia, come avrebbe detto lo stregone messicano. Entrambi i mondi creati sono opere totalizzanti, e affrontano l’uomo nella sua complessità, come pura espressione della coscienza, e questo è proprio l’aspetto su cui crollò miseramente invece l’opera di Lynch, devastata dai vincoli e dai problemi posti dalla produzione di De Laurentis, e incapace di mostrare verità radicali.
Oggi Villeneuve, volendo affrontare l’opera depurandola dalle stratificazioni iconografiche depositate attraverso quasi cinquant’anni di immaginario, e contestualmente di preservarne l’aura quasi nietzschiana che emerge dal testo del romanzo, rischia di ritrovarsi con un materiale troppo grezzo, minimalista, esteticamente allineato con le sabbie di Arrakis, ma impoverito dal punto di vista semantico. D’altronde lo stesso tipo di problematica gli si era posta con Arrival, ma in misura ancora maggiore con Blade Runner 2049. I deserti di Las Vegas, momento cardine di quest’ultimo, popolati di statue, sono una sorta di prova generale per i deserti di Dune (che il regista canadese aveva già in progetto).
Analogamente si ritrovano tra i due film affinità grazie al contesto messianico che condividono, e agli aspetti cristologici e religiosi che li accomunano. I bambini e il loro destino, il valore della loro esistenza, è un tema centrale in questi film di Villeneuve, e credo che emergerà ampiamente anche in Dune. Le sabbie di Arrakis, nelle immagini che la produzione ha anticipato, ricordano tra l’altro i deserti di Sergio Leone, carichi di simboli, e, come quelli, gravidi di umanità. Nel romanzo di Herbert nessuno dei personaggi elude la sua storia, anzi, la incarna fino alle estreme conseguenze, in quanto identificati come figli di un progetto, di un destino. Sia il Duca Leto che Lady Jessica, seppur ognuno nella sua specificità, sono figli del loro passato, e proprio per questo, come tutti gli altri personaggi, accusano sempre più, nel proseguo della narrazione, la solitudine e la stanchezza propri del ruolo. L’unico che esplode nel suo essere profezia incarnata è Paul, per cui il passato è sabbia vuota, e il futuro è la stessa sabbia ingravidata della sua missione liberatrice. Villeneuve ha nel suo arco le frecce adatte a rappresentare questa mistica guerriera, presto le vedremo.