La Capria scrive francamente di essere stato nella “stessa trincea” con alcuni degli amici più cari, nell’età contro cui il tempo se la prende in modo esclusivo e duro. Non per nulla, lo scrittore napoletano in questo libro memoriale e biografico sente chiudersi il cerchio intorno a sé, e fa di tutto per recuperare nell’opera e i giorni la concentrazione di affetti, il cumulo di ricordi letterari ed esistenziali lungo novanta anni di vita. Contrastando smemoratezze poco signorili, e foschie non servizievoli attorno a una generazione che comprende (fra gli altri) Rosi, Patroni Griffi, Moravia, Morante, Bompiani, Parise, Garboli.
Un compianto schietto, preciso, fatto anche di cronache e ricordi strettamente personali, che trova ragione nel riunire scritti già pubblicati e dispersi in riviste e giornali o inediti. Troviamo le collaborazioni cinematografiche con Rosi, i sopralluoghi effettuati per film come Cristo si è fermato a Eboli, il ritiro del Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia, l’impegno per il soggetto e la sceneggiatura di Mani sulla città con il lavoro di una vera e propria inchiesta giornalistica in archivi, piani regolatori, mappe e uffici comunali di Napoli. Per chi ama il mondo della celluloide il capitolo riservato a Francesco Rosi ha un ineludibile valore storico, dove il racconto di idee, progetti e difficoltà consente di entrare negli avvenimenti che caratterizzarono un insuperato periodo della cinematografia italiana, fatto di uomini non soltanto visionari e sognatori ma anche estremamente pratici.
Il ritratto “quotidiano” di Alberto Moravia ci restituisce un uomo dagli atteggiamenti felini, dalle semplificazioni spiazzanti per tutti, anche per chi lo frequentava pressoché ogni giorno come La Capria. Lo scrittore non dice niente di nuovo chiarendo quanto Moravia fosse amato e odiato soprattutto dagli intellettuali. Ma spiega come fosse oltremodo interessato a conoscere perfettamente quale aria tirasse su di lui. Segno di un narcisismo lucido e polemico che racchiudeva la cerchia delle sue donne e dei suoi amici fraterni. Questo è un capitolo che getta luce su alti e bassi di un clan dai tratti certamente antipatici ma composto di assoluti geni della creatività.
Senza contare l’implacabile Elsa Morante, nei ricordi di La Capria, i cui sortilegi mentali erano difficile da trattare e spesso da comprendere, anche fra coloro abituati alle ragioni intrepide della scrittura. Lei, come gli altri (la Ortese per esempio, ritratta amabilmente vestita di nero in gita sul vaporetto verso Procida, all’isola di Arturo) della razza mediterranea tanto imparentata con la sensibilità stregonesca e poco incline alla media tolleranza.
Ogni ritratto raccolto in Ai dolci amici addio (di dantesca memoria) viene collocato nella sua giusta durata, per questo al di là dei momenti di forte emozione si colgono le vivacità degli anni attraversati, e tutta la ricchezza di un’Italia novecentesca dove la modernità stava nella perfetta aria del tempo, che allora era ben altro degli attuali sciamanti processi del digitale. Menti analogiche che sapevano ammaliare e pure strigliare, avventure e ricordi di un’Italia culturale del Centro-Sud, contrapposta alla nordica gaddiana, che costruiva padelle ma che sapeva anche pulirle. Anche stando accanto alla snobistica iridescente e scostumata Capri.
Lunga vita al memorialista napoletano, di cui scrisse Arbasino, non senza una punta di disinvolta polemicuccia: “Per le nostalgie del ‘come eravamo’ occorre una grazia rara, che La Capria possiede e io no.” Verissimo, abbiamo pronto il telecomando per volgere innamorata attenzione a entrambi.