Come è stato (veramente) conquistato il West

Bruno Cartosio, Verso ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, pp. 448, euro 28 stampa, euro 12,99 ebook

La versione integrale di quello che rimane forse il film più celebrativo dell’epopea americana dell’Ottocento, La conquista del West (il titolo originale, How the West Was Won, ne accentua la funzione didascalica), si apre con una ouverture che immerge subito lo spettatore in un’atmosfera epica degna di Omero. Mentre lo schermo proietta per cinque lunghissimi minuti l’immagine statica di due topoi western (una diligenza assalita dagli indiani e un gruppo di pellerossa impegnati nella caccia al bisonte), si odono le note di canti popolari che fissano il tono trionfalistico e la portata «monumentale» del film: canti come Oh Shenandoah – dichiarazione d’amore di un mercante bianco per una fanciulla nativa americana –, o come I Am Bound for the Promised Land, in cui l’idea del «destino manifesto» della nazione si carica di connotazioni bibliche. Nel film la conquista della frontiera è presentata attraverso una storia multigenerazionale di audaci pionieri e pioniere, ma anche di rudi mountain men e avventurieri senza scrupoli – quasi sempre antieroi redenti dal compito superiore loro assegnato, quello di portare la civilizzazione nei territori inesplorati della wilderness. Non c’è da meravigliarsi che il film, dal cast stellare e girato nell’innovativo sistema di ripresa per schermo curvo denominato cinerama, abbia ottenuto un successo strepitoso, aggiudicandosi tre premi Oscar (tra cui quello per la miglior sceneggiatura), e che nel 1997 sia stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Library of Congress americana: come sottolinea un giornalista alla fine del film L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford (uscito nel 1962, lo stesso anno della Conquista del West): «Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

Questi e altri film western contribuirono a divulgare il mito dell’Ovest, che però nacque molto prima, come testimoniano la letteratura e la storiografia americana tra Ottocento e Novecento. Nel suo libro Bruno Cartosio, che insegna Storia dell’America del Nord all’Università degli Studi di Bergamo, parte dalle famose tesi sul significato della Frontiera nella storia americana, esposte per la prima volta da Frederick Jackson Turner durante l’Esposizione mondiale di Chicago del 1893, per indagare quei meccanismi storico-sociali che hanno condotto prima alla cristallizzazione del mito e poi alla sua messa in discussione, operando una vera e propria demistificazione delle varie fasi della conquista del West. Verso la fine dell’Ottocento, rivela Cartosio, il processo mitopoietico si proponeva innanzitutto di «presentare come intrinsecamente superiore l’uomo anglosassone protagonista della conquista ai danni delle selvagge popolazioni native e contemporaneamente fare apparire come ‘naturale’ quello che veniva mitologizzato e che invece era stato ‘storico’, cioè prodotto dalle forze economico-politiche e sociali in campo». E infatti dalla lettura del volume emerge chiaramente come in breve tempo, man mano che la frontiera retrocede fino a scomparire, «nella sua marcia verso ovest la civiltà cancella regolarmente tanto gli indiani, quanto i frontiersmen», che pur avendo fatto da apripista, devono lasciare il posto agli agricoltori, ai capitalisti, e infine agli industriali.

Attraverso uno studio meticoloso e ampiamente documentato, Cartosio rispolvera cinturone e speroni e torna a cavalcare i territori del Far West a lui ben familiari, mostrando come l’idealizzazione dell’agricoltore indipendente, del pioniere quale cardine della società statunitense, sia servita a convalidare a posteriori «una valenza politica precisa, il cui fine è la giustificazione o legittimazione dell’esistente, vale a dire delle ragioni e modalità della conquista». Ogni civiltà ha bisogno di un mito di fondazione, e i neonati Stati Uniti non avevano a disposizione il passato atemporale degli antichi poemi epici su cui erigere le strutture portanti della nazione; per questo a Ulisse e Achille si sostituiscono figure storiche che assumono da subito contorni mitici, come Kit Carson, Wild Bill Hickock, Davy Crockett, «Buffalo Bill» Cody, Billy the Kid. Ad essi vengono contrapposti gli indiani, i cosiddetti pellerossa, connotati sin dal colore della pelle come altri, estranei, nemici; i loro eroi, Sitting Bull, Geronimo, sono destinati a sconfitte gloriose che servono soprattutto a far risaltare le vittorie eroiche degli avversari. Cartosio sottolinea giustamente come in queste storie la contrapposizione dovesse essere netta, semplice, immediatamente riconoscibile, perché «l’idea concreta della miscela razziale che la conquista avrebbe comportato era largamente respinta come ripugnante».

Tuttavia, in questo volume gli indiani non sono certo relegati al ruolo di antagonisti o semplici comparse. Il libro di Cartosio è corredato da suggestive foto d’epoca e affronta una varietà così numerosa di argomenti, spunti e narrazioni che è impossibile riassumerla senza sminuirne l’immensa portata evocativa. Il risultato complessivo è quello di un grande affresco storico-sociale, una riflessione a tuttotondo densa e rigorosa, ma perfettamente accessibile anche a non specialisti. Vengono studiati gli eroi della letteratura popolare e dei dime novels, come anche le vicende storiche che li hanno visti protagonisti; si ripercorrono i viaggi di Lewis e Clark e dei primi esploratori; si analizzano le armi della conquista, le vicende di alcune tribù indiane e le battaglie più famose; si racconta l’«Ovest dei fotografi» e quello dei cacciatori e dei mercanti, le «prospezioni per le ferrovie e le esplorazioni dopo la Guerra civile», ma anche le curiosità e le leggende immortalate in decine di film e che oggi sopravvivono nell’immaginario collettivo (e nelle ricostruzioni di musei e attrazioni turistiche). Infine, cosa forse più importante, il libro fa riemergere quel processo, forse unico nella storia dell’umanità, di interpenetrazione tra diverse culture, società e «nazioni», avvenuto in quello spazio di frontiera ormai scomparso, ma che ancora oggi non smette di esercitare un invincibile fascino, e che ci spinge per l’ennesima volta a rivolgere il nostro sguardo di europei «verso ovest».