La casa editrice Future Fiction è da tempo impegnata nella diffusione in Italia di una nuova fantascienza che viene alla luce un po’ in tutto il mondo, lontana dal “canone occidentale”, diciamo così, della science-fiction anglosassone: traduce testi dall’Africa, dall’Asia, dal Sudamerica, dai “continenti” indiano e cinese, storie di grande rilievo letterario e d’impegno culturale.
Abbiamo già dato spazio più volte su Pulp Libri alle proposte editoriali di Future Fiction; il suo fondatore e attuale numero uno è Francesco Verso, da tempo presente sulla scena, nonché uno dei principali esponenti del Solarpunk in Italia. In particolare, Verso è autore del primo romanzo solarpunk prodotto nel nostro paese, I camminatori, uscito in due volumi.
I Vegumani di Clelia Farris è pubblicizzato come “il secondo romanzo solarpunk italiano”, e a ragion veduta. Prima considerazione: l’idea sottostante al romanzo ricorda l’idea-base di I camminatori: Verso ci presenta un’umanità futura profondamente cambiata dall’azione di naniti, nanotecnologia che agisce a livello fisiologico eliminando (o meglio, riducendo in maniera quasi definitiva) la necessità di nutrirsi: l’organismo trasformato dai naniti ricava l’energia necessaria dai raggi solari, attraverso la pelle. Seconda considerazione: le somiglianze tra le due opere terminano sostanzialmente qui, non ci troviamo assolutamente di fronte a una variazione sul medesimo tema. Mentre Verso sceglie un’ambientazione tutto sommato prossima, una Roma del futuro (purtroppo) vicino, in cui non solo l’ambiente ma anche i diritti civili sono degradati, Farris opta per uno scenario avanti di oltre un secolo.
La catastrofe climatica è già avvenuta, e ha colpito duro: “tutto aveva avuto inizio cento anni prima, quando la transizione ecologica si era rivelata insufficiente per far regredire il cambiamento climatico”. Il Mediterraneo si trova in una fascia climatica torrida, bruciato da un sole implacabile che inibisce la vita; l’agricoltura è impraticabile, le terre desertiche e improduttive, l’acqua ridotta a una risorsa preziosa e estremamente scarsa.
La vicenda è ambientata in Sardegna, dove l’autrice vive; nel suo futuro immaginario, comunità sempre più spopolate si organizzano per gestire energia e risorse, con la determinazione di non cedere, di non emigrare in quell’indefinito Nord dove ancora le temperature sono tollerabili. Attenzione però: non si tratta di un racconto post-apocalittico, i suoi protagonisti non sono umani impotenti in uno scenario ostile; utilizzano una tecnologia decisamente più avanzata della nostra, sfruttano l’acqua non un’efficienza che oggi neppure riusciamo a immaginare, e soprattutto questa è la grande differenza rispetto al filone letterario, o al sottogenere, post-catastrofico, non sono minacciati da altre comunità ostili, secondo lo stereotipo post-catastrofico “mors tua, vita mea”.
La cooperativa agricola Astarte, ambiente in cui i personaggi vivono, è appunto un luogo di cooperazione (fatte salve le esigenze drammatiche del conflitto narrativo, ovviamente), situato nel territorio di un comune che amministra le risorse con oculatezza, e soggetto a finanziamenti e programmi di trasferimento volontario delle popolazioni: un’entità sovranazionale che non esercita la propria autorità con la violenza propria dello Stato. Anzi, le risorse sono ripartite con una logica redistributiva.
Protagonista principale del romanzo è Nidosette Gazania (tutti i membri della cooperativa hanno nomi di fiori), una socia lavoratrice che sta svolgendo per interesse personale ricerche sulle proprietà delle cere vegetali; è infatti interessata a migliorare una crema protettiva per l’epidermide che lei stessa ha ideato, nell’intento di aumentare la resistenza alla radiazione solare di chi lavora all’aperto.
L’attività della cooperativa è organizzata intorno alla grande Serra, che però richiede una rigida separazione dall’inospitale ambiente esterno e un notevole consumo di energia. La sua crema solare ha però due effetti secondari: il primo, trascurabile, è il colorito verde che assume la cute; il secondo effetto invece potrebbe creare infiniti problemi, perché spinge l’organismo a comportarsi come un vegetale. Le conseguenze paventate da Gazania ricordano quelle cui giungono i protagonisti del romanzo di Verso: “La crema poteva essere la soluzione a tutti i loro problemi. Se la gente si fosse radicata, gli agricoltori non avrebbero avuto bisogno della pioggia; le coltivazioni sarebbero state inutili, la nutrizione non sarebbe più passata per lo stomaco.”
Il percorso seguito dai due autori è differente, sia perché distanti sono i problemi posti dall’ambientazione, sia perché la natura delle due idee futuribili è strutturalmente dissimile. Il conflitto narrativo in I Vegumani è molto forte, sebbene non drammatizzato attraverso una trama avventurosa. Un romanzo di fantascienza classico assumerebbe come centrale la mutazione genetica, racconterebbe la nascita di una super-razza che grazie alla propria capacità di adattamento colonizzerebbe tutte le fasce climatiche spopolate dall’aumento della temperatura globale. Farris invece costruisce un altro tipo di storia, che forse è indice di quanto la fantascienza di oggi sia maturata grazie alla consapevolezza solarpunk: “Se ce ne andremo tutti, chi si prenderà cura di questa terra? Noi abbiamo dei doveri nei suoi confronti. Voi l’avete avvelenata, noi cerchiamo di guarirla.”
Il conflitto narrativo si indirizza di conseguenza sulle opposizioni resistenza/rinuncia, radici locali/novità, e anche genitori/figli. Chi ha ragione? Chi ha torto? Qual è la via giusta per la sopravvivenza? Come tutte le migliori utopie, anche I Vegumani contiene una sana dose di ambiguità; l’utopia non è la risposta, bensì una domanda tra tante: “Gli esseri umani si sono sempre spostati,” replicò Parmenide facendo spallucce. “Siamo venuti dall’Africa, milioni di anni fa, e ora saliamo solo un po’ più a nord.”
“Gli esseri umani si prendono cura di se stessi e del proprio ambiente,” ribatté Gazania sollevando la voce. “Siamo tutt’uno. E se l’ambiente sta male, interveniamo per aiutarlo. Gli esseri umani non scappano. Questa aridità, questo caldo, fanno parte di noi, siamo noi. Non possiamo strapparceli di dosso come se fossero indumenti scomodi.”