Scrittore, sceneggiatore cinematografico e di fumetti – diverse e proficue le collaborazioni soprattutto con Carlo Mazzacurati e con Lorenzo Mattotti –, Claudio Piersanti nell’arco della sua carriera professionale è stato giornalista scientifico per la TV e direttore responsabile di una rivista di neurobiologia. Laureato in Filosofia, il rapporto esclusivo con la parola ha accompagnato tutta la sua carriera ormai più che quarantennale. È stato lui, infatti, insieme ad altri autori facenti parte del Movimento bolognese del Settantasette, come Lodoli, Palandri e Tondelli, a introdurre una narrativa “giovanile” che fino a quel momento non era ritenuta interessante. Lo scrittore abruzzese, trapiantato nelle Marche dopo aver peregrinato per anni per il paese, ha uno stile molto personale e riconoscibile fin dai primi passaggi per chi lo segue con costanza: la sua formazione classica, specialmente sui grandi romanzi russi, lo fa essere lo scrittore più “classico”, mi si perdoni la ripetizione, del panorama letterario italiano: lo stile asciutto ed essenziale, le citazioni letterarie (il Vronskij del suo precedente romanzo ne è l’esempio lampante), il suo “rigore letterario”, prodotto dall’amicizia con Romano Bilenchi (uno dei maggiori scrittori del Novecento, come da lui stesso affermato in diverse sedi), la ricerca estenuante di un’armonia tra una parola e una successiva, come fossero note che formano una sinfonia, ne fanno uno dei più raffinati ed eleganti autori italiani contemporanei.
I temi trattati da Piersanti sono intimi e universali e rendono i suoi romanzi – senza dimenticare L’amore degli adulti, antologia di racconti straordinari –, testi che non temono lo scorrere del tempo, qualità sempre più difficile da riscontrare. Le solitudini cercate e anelate dai suoi protagonisti – all’autore non interessano i gruppi o le famiglie, ma gli individui –, la loro ricerca introspettiva facilitata appunto dall’isolamento, la ricerca della serenità che a volte costringe all’allontanamento dall’amore, il degrado progressivo dovuto all’impoverimento culturale della società sono i cardini della sua narrativa. Ma la natura pessimista e a volte tragica delle sue storie, del racconto di una quotidianità fatta di abitudini e di rinunce, viene parzialmente ribaltata nelle sue opere più recenti che lasciano intravedere una luce di speranza. Ogni rancore è spento è un romanzo con una struttura apparentemente semplice ma che nasconde un lavoro di cucitura di esistenze diverse che alla fine si incontrano.
Lorenzo Righi è un medico che ha preferito lasciare un policlinico per intraprendere la carriera privata in una clinica di lusso. È uomo che ha scelto la solitudine, di lasciare ai margini della propria esistenza l’amore per paura di soffrire. Ha come amante la vicedirettrice della struttura in cui lavora, scialba ma che apparentemente non chiede niente di più di quello che lui è disposto a darle. Fino a che un giorno lo lascia, stanca della sua indifferenza e di non sentirsi amata. Lui non ne soffre se non per il fatto di essere stato lasciato da una donna così anonima e neanche bella, e l’episodio gli fa ripercorrere gli amori – soprattutto l’unico che rimpiange – da cui è scappato quando cominciavano a farsi troppo seri e impegnativi. Una sera, mentre torna a casa, incontra fortuitamente un vecchio compagno di scuola, Paolo Spinosi, che avevano ribattezzato mezza sventola a causa delle dimensioni delle orecchie. L’amico è un uomo ricco con posizione invidiabile e passa il tempo nella sua villa con piscina e annesso giardino nel centro città, Bologna, allietato da bellissime donne a pagamento e incalzato dalle sue ex mogli. Tutti e due soli – Lorenzo ha una domestica, Betty, che gli prepara i pasti e tiene in ordine la casa mentre Paolo si serve di filippini per farsi portare i pasti dal ristorante e custodire la villa –, decidono di passare del tempo insieme. Una sera Paolo tira fuori una scatola rossa dove tiene una “polvere” che cominciano a usare con moderazione per avere momenti di assoluta beatitudine: dimenticano i problemi, si lasciano alle spalle la vita noiosa e ripetitiva e Lorenzo riesce a superare il lungo periodo di ipocondria che lo stava consumando. Ma la svolta fondamentale arriva quando a casa di Lorenzo si presenta Rosalba, una ragazza brasiliana sedicenne dalle lunghe gambe che gli rivela di essere la figlia di suo padre, un uomo ormai anziano che ha abbandonato lui e la madre per una relazione con una giovane brasiliana. Ripudiato il padre da anni, un vecchio porco senza il minimo ritegno, il protagonista si trova alle soglie dei sessanta anni a incontrare una sorella che potrebbe essere la figlia. La prima reazione è quella di disfarsi della ragazza, non vuole alcun ponte con un padre che ha rinnegato, ma le cose non andranno come ha preventivato. E col tempo anche i suoi sentimenti cambieranno, sostenuto anche dall’amicizia con Paolo che lo spingerà, a poco a poco, a rimettersi in gioco. Non sarà un percorso indolore, e i dubbi attanaglieranno un uomo che pensava di avere un destino segnato che seppure incolore gli avrebbe evitato travagli interiori.
Crudo e pungente, Piersanti mette in scena una storia completa e complessa, solo apparentemente lineare, fatta di introspezioni psicologiche e dialoghi che ci presentano le paure e i contrasti dei protagonisti coinvolgendo il lettore in una spirale di avvenimenti che tengono gli occhi incollati al libro. Lo stile fluido e uniforme – lo scrittore abruzzese non ha bisogno di contorsioni stilistiche per dimostrare la sua abilità – e la sua cultura universale, frutto di una esperienza multidisciplinare, ci regalano una imperdibile gemma della letteratura italiana contemporanea.