Se l’ecologia è la scienza che studia l’ambiente in rapporto agli esseri viventi, il pessimismo corrisponde a un’attitudine più circospetta ma altrettanto realistica del pensiero umano, che funge tra le altre cose da filtro intellettuale rispetto alle distrazioni dell’ottimismo obbligatorio. Essere eco-pessimisti di fronte alla crisi innescata dal cambiamento climatico significa ad esempio attenersi, fino a prova contraria, al “worst case scenario” delineato da studi internazionali come, negli ultimi tre decenni, le relazioni IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). “Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro” si presenta come un breve testo teorico che porta la riflessione filosofica a naufragare nella narrativa del perturbante, l’unica apparentemente in grado di fare i conti con lo spettro dell’estinzione che ha accompagnato Homo Sapiens durante la sua breve ma devastante parabola terrena. Uno spettro che in epoche diverse ritroviamo nella premonizione del soprannaturale, nella trasposizione simbolica del paesaggio o, anche, e più semplicemente, nell’incombere dell’inumano ogni volta che attraversiamo una foresta.
Ed è appunto una immaginaria passeggiata nel bosco di Martin Heidegger quella che, in uno dei passaggi più suggestivi del libro, viene raccontata in chiave folk horror, per farne la lettura del possibile significato di “abitare” il mondo. I percorsi e gli scenari si incastrano abilmente nella riflessione/narrazione di Kulesko, senza particolari concessioni al pop, portando alla luce uno alla volta gli “spettri dell’Antropocene”. Come presagi infestanti o fantasmi gotici li vediamo spuntare dall’alba neolitica del tutto come dalla cronaca minore del nostro presente, nella giungla del 15.000 a.C. o tra le comunità prepper dei moderni survivalisti. Su questa strada incontriamo interpreti e eroi disparati come possono esserlo il matematico e “tecnoluddista” Ted Kaczynski, oggi detenuto in un carcere di massima sicurezza nel Montana, o il biologo Edward Osborne Wilson, che propose di dividere la terra in due, riservando metà del pianeta alle forme di vita non umana per salvare la biodiversità.
In generale, Ecopessimismo prende le mosse dall’urgenza che la catastrofe ambientale pone in modo non equivocabile. Il saggio descrive infatti un perimetro intellettuale chiaro e coerente con il quadro dell’apocalisse climatica anche nell’assunto della sua riflessione più strettamente filosofica. Se l’invenzione della “natura”, come costrutto discorsivo, ha permesso la domesticazione del non-umano e il suo assoggettamento predatorio, come risorsa, al mondo che oggi riconosciamo nell’idea stessa di Antropocene, per Kulesko la decostruzione come postura filosofica non è una risposta e soprattutto non può diventare un alibi. “Asserire che ogni cosa sia il prodotto di una commistione di natura e cultura, o che ogni fenomeno possieda tratti al tempo stesso naturali e culturali, significa presupporre – in una sorta di ‘defaillance creazionista’ – che Homo sapiens sia sempre esistito. Ma è solo l’estrema invasività della nostra specie a farci illudere di “essere sempre stati qua”. La scomoda verità è infatti che noi siamo arrivati milioni di anni dopo le altre forme di vita e in un battito di ciglia abbiamo manomesso la biosfera. Un esito che se da un lato ci pone oggi davanti a un bivio, dall’altro dovrebbe esonerarci dal percepirci ancora una volta, esclusivamente come parte della soluzione. “È la stessa rapidità di tali alterazioni a definire lo statuto artificiale del cambiamento climatico. Un tempo di terz’ordine, dominato dalla morte e dal ricambio generazionale, che rivela il fondamentale antropocentrismo delle filosofie anti-naturaliste”.
Con questa premessa il saggio non indulge in fantasiose alleanze interspecie né minimizza la discontinuità rappresentata dalla comparsa dell’umano come “predatore astratto”. Ma, coerentemente al suo assunto ecopessimista, pone in termini secchi e non negoziabili l’alternativa tra l’estinzione e l’evoluzione culturale della specie, scommettendo, in tal caso, sulla versatilità dell’umano in quanto animale storico.