Claudio Kulesko / Attenti alle ombre

Claudio Kulesko, L’abisso personale di Abn al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto, Nero Editions, pp. 136, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Se non è strettamente necessario che i racconti dell’orrore – anche i racconti dell’orrore astratto cui si è esplicitamente dedicato Claudio Kulesko in questo suo libro d’esordio nella narrativa breve – facciano paura, non c’è forse terrore più grande di quello che prova “chi ha paura della propria ombra”. Non si ricorrerà qui ad argomentazioni variamente psicologiste o pseudo-junghiane per corroborare quello che, in fondo, è già noto al senso comune; basterà ricordare come nel secondo racconto della raccolta, che le dà il titolo complessivo, ossia “L’abisso personale di Abn al-Farabi”, tale abisso sia un ibrido tra un buco nero e un blob e, più specificamente, sia un baratro personale: l’ombra che a ogni passo, nella vita quotidiana e di tutti, può inghiottire la materia.

Non c’è che dire, una fine orrenda. Una fine che è anche infinitamente speculativa, per introdurre un aggettivo che ben si attaglia alla produzione di Kulesko – già noto come filosofo in proprio e traduttore, tra gli altri, di Eugene Thacker (Tra le ceneri di questo pianeta, 2019, e Rassegnazione infinita, 2022) –, il quale, con questo libro, si affaccia alle frontiere filosofiche della narrazione, spesso sovrapponibili alle frontiere narrative della filosofia.

Rispetto alla speculative fiction, poi, l’autore sembra ripercorrere l’intera storia del genere: se il sultanato, storicamente e geograficamente non meglio precisato, di Abn al-Farabi e, soprattutto, la qualità catramosa del suo “abisso personale” sembrano rapide e argute allusioni a Cyclonopedia di Reza Negarestani (recente capolavoro del genere, pubblicato nel 2008 e tradotto in italiano soltanto nel 2021, per Luiss University Press), le radici della scrittura di Kulesko – come già notato, ad esempio, nella recensione di Vanni Santoni pubblicata su Linus – vanno ricercate nella matrice più classica, a metà strada tra Borges e Lovecraft. Anche da qui viene un certo nitore della scrittura, scevra di contaminazioni postmoderne o voli pindarici del weird contemporaneo (che hanno più aspetti in comune di quanto comunemente si dica, con il postmoderno come “morto non-morto” per eccellenza delle culture letterarie occidentali), e attenta invece a recuperare una certa intensità più classica, e sicuramente meno “facile” – almeno in riferimento allo stile di molta letteratura più o meno mainstream che le si potrebbe accostare – del dettato.

Tuttavia, la collocazione tra filosofia e narrazione non dà conto soltanto di certe marche stilistiche, ma offre anche sicuri riferimenti concettuali per entrare nell’abisso di Kulesko, o meglio per entrare nella sua narrativa e sporgersi sull’abisso – un po’ come sul maelstrom di Edgar Allan Poe, altro progenitore nobile. Nel primo dei sei racconti, “Scivolare”, fa ad esempio capolino il pensiero del “metafisico norvegese P. W. Zapffe”, peraltro già oggetto di studio nel saggio, firmato a quattro mani con Andrea Cassini, Blackened. Frontiere del pessimismo nel XXI secolo (Aguaplano, 2021). La menzione diventa occasione di dichiarazione di poetica in nuce (riportando anche alla mente un altro cultore di Zapffe quale Thomas Ligotti): “L’intera opera di Zapffe possiede il raro pregio di ruotare attorno una semplice constatazione: l’autocoscienza umana – ciò che distingue la nostra specie da tutte le altre – non sarebbe altro che un ‘organo’ ipertrofico e dannoso, tanto per noi stessi quanto per le altre specie animali e vegetali. Qualcosa di abissale e allucinatorio, che ci costringe a realizzare la sofferenza insita nell’universo e al tempo stesso a negarla, in nome dell’inarrestabile marcia della vita organica e dell’istinto riproduttivo che ne costituisce la chiave di volta. Per queste ragioni, la nostra specie dovrebbe autoeliminarsi, smettere di riprodursi e svanire per sempre dalla faccia della Terra, lasciando che la natura proceda libera e indisturbata il proprio corso”.

Se l’intromissione dell’aggettivo abissale è già di per sé significativa, non lo sono di meno gli appigli a un pensiero radicalmente pessimista (nonché post-antropocentrico e antinatalista) che si ritroveranno poi in tutto il libro. Anche quando il racconto sembra assumere connotati più riconoscibili – come nel terzo racconto, ambientato sul finire del secondo conflitto mondiale – il dato più importante resta, infatti, quello contenuto nel titolo, “La persistenza delle ombre”. Nel successivo “Noi”, il contesto torna a sfumare, grazie anche a una narrazione polifonica che ottiene di rimettere in gioco il nitore stilistico, nonché gli agganci più tradizionali e convenzionali, di altre pagine – si pensi al penultimo racconto, “L’ascensione”, dove nella cornice zombi ci si trova poi a seguire pedissequamente, e molto chiaramente, la spinta verticale evocata nel titolo – e una serie di squarci gnomici di notevole intensità.

Tornando a “Noi”, la chiave polifonica scelta da Kulesko rende conto della pluralità evocata nel titolo, ma anche del suo costituirsi, in pieno stile weird, come entità astratta, con la lettera maiuscola, eppure non manca al tempo stesso di sottolineare anche l’esito annichilito e annichilente dell’autocoscienza umana secondo la lezione di Zapffe: “La nostra breve vinta è già giunta al punto in cui dubitiamo di noi stessi”. Passaggio che fa il paio con la chiusura de “L’abisso personale di Abn al-Farabi”, dov’è declinato al singolare: “Quando Abn al-Farabi si ridestò dal suo incubo e riaprì gli occhi si ritrovò in un’oscurità senza inizio né fine. Egli stesso era oscurità, come uno sguardo privo d’occhio, come un occhio capace solo di vedere se stesso”.

L’autocoscienza è, dunque, un “organo ipertrofico e dannoso” e inevitabilmente autoreferenziale. Ma c’è di più: quello “sguardo privo d’occhio” sembra nostalgico, per quanto in modo indiretto o residuale, di una dimensione, forse mitica, che è stata perduta. Una mancanza apprezzabile anche nell’ultimo racconto della raccolta, “Dell’origine e destinazione del nulla di questo mondo”: ruotando attorno a un seminario universitario di filosofia in cui il nulla avanza, divorando progressivamente la cosiddetta “realtà”, il racconto – più che rimandare alla formazione e produzione dell’autore in una chiave semplicemente autobiografica – pone di nuovo il problema dell’autocoscienza.

In altre parole, il tentativo di comprensione sembra una mossa ineludibile, per quanto destinata allo scacco. Non è una contraddizione, però, perché accade così, in fondo, con ogni paura: per quanto si cerchi di capire la propria ombra, questa sarà a un certo punto – anche non in coincidenza della morte biologica, ma certamente di un passaggio orrorifico – inghiottita dalle altre.