Claudia Durastanti / La vita prima della parola Fine

Claudia Durastanti, Missitalia, La nave di Teseo, pp. 400, euro 19,00 stampa, euro 11,99 epub

Si dice che ogni lettore legga un libro diverso, anche quando si tratta dello stesso oggetto stampato. E che gli scrittori siano i primi a stupirsi, quando sentono quello che i lettori dicono loro sulle opere. Così succede anche che noi lettori privilegiati invitati a conoscere e intervistare scrittori o scrittrici, ci troviamo di fronte il racconto di un libro che assomiglia solo in parte a quello che abbiamo letto. Che insomma un libro non è un’entità fissa e sebbene sia vero che scripta manent, le parole creano dei mondi che, attingendo all’immaginario unico di ciascuno di noi, sono per forza diversi.

Ascoltando Claudia Durastanti, che era recentemente a Milano e che ho incontrato alla sede della Nave di Teseo (affezionata al bel tavolo intarsiato intorno a cui ci sediamo, e anche ai bicchieri di cristallo sul vassoio al centro), sembra proprio così: che il libro che lei ha scritto, e prima pensato e immaginato e progettato, non coincide precisamente con quello che io ho letto. Ma questo è il bello dei confronti, delle discrepanze, delle scoperte. Di certo Durastanti è generosa, vitalissima, sovrabbondante. Ha delle calze rosse. Siede a capotavola. È brillante, disinvolta, colta e veloce. Ogni frase che dice è piena di rimandi e riferimenti. Ogni concetto se ne porta dietro altri. A grande velocità e ritmo serrato ci arrivano libri e scrittori, film, ricordi, riflessioni, possibili deviazioni. Sono passati per le sue mani e per la sua mente Cesare Pavese e Don DeLillo, Natalia Ginzburg e Fernanda Pivano; Elsa Morante è una lettura tardiva. Moltissimi sono i film, di fronte a cui confesso, mi perdo, non sono così preparata. Si sono impastati e rimescolati nella scrittura. Generosità, ricchezza, rimandi, densità, e quella scrittura un po’ ruvida ma tanto evocativa che ci aveva conquistato in La straniera, contraddistinguono anche il nuovo romanzo, Missitalia.

In questa abbondanza, da dove cominciare? Provo dal titolo, nonostante sia stata una delle ultime cose che ci ha detto. Il titolo nasce dall’idea di usare una parola composta. Non una necessità della storia ma uno spunto venuto dal tedesco, che è vero lei non conosce ma di cui si sa sono bellissime quelle parole che in una sola ne tengono parecchie. Missitalia riesce a contenere non solo l’italianità profonda del romanzo, che dopo La straniera bisognava in qualche modo esplicitare, ma anche quel senso di perdita, di mancanza, di aver fallito l’obiettivo, che la parola “miss” in inglese si porta dietro. Con buona pace della Miss nel senso di signorina, e di Miss Italia concorso di bellezza.

Il romanzo è un trittico, tre libri diversi l’uno dall’altro nei toni e nella voce narrante oltre che nei contenuti e nel tempo storico. Una scelta decisa fin dall’inizio, a tavolino. “Dopo La straniera, dopo averlo portato in giro per quattro anni, volevo scrivere un trittico, o un romanzo a imbuto”, ci ha detto Durastanti. Quello che tiene insieme i tre libri è la Val d’Agri, che avevamo già conosciuto nel precedente romanzo e che ritroviamo con tutta la sua bellezza, desolazione e distonia. Nel libro primo, Le anguille, siamo a metà dell’Ottocento, si è appena compiuta l’unità d’Italia e il sud è flagellato dal banditismo, dalla ribellione e dalla sanguinosa repressione dei soldati del re. In una casa spersa nella Val d’Agri, Madre – donna temeraria, dalla “elettrica e furiosa vita” – accoglie delle ragazze e, nei sotterranei della casa, uomini e ragazzi fuggiaschi e resistenti clandestini. Una vita a margine degli eventi, ma partecipe in modo laterale e anche fondamentale. Le ragazze, fuggite o abbandonate o temporaneamente lasciate nella casa, crescono, esplorano il mondo e i rapporti con gli altri, cercano sé stesse e la loro strada, godono e sfruttano una libertà che non avrebbero mai avuto in condizioni normali, dati il luogo e l’epoca. “Ho voluto raccontare un sud che non fosse quello romantico ed epico del brigantaggio, e delle ragazze che non fossero necessariamente figlie o sorelle o fidanzate, ma che avessero un loro mondo”. E in quel sud a un certo punto arriva l’industria, la Fabbrica: demone o portatore di salvezza, se ne dibatte, qualcuno ci va a lavorare, tutti ne parlano, ma alla fine sarà un’illusione perduta. La Fabbrica scompare come era apparsa, senza cambiare nulla intorno, senza lasciare tracce, senza trasformare il mondo come avrebbe voluto e come si era creduto. Invece le ragazze che arrivano ognuna per conto suo alla casa di Madre e che se ne vanno tutte insieme, come le anguille le ragazze “non nascono e non muoiono, si trasformano e basta.”

Nel libro secondo, Acquasporca o Detesto i sopravvissuti, la casa spersa nella Val d’Agri è la base di una ricerca etnografica. Il sud diventa, o ridiventa, luogo di magia e di mistero che viene indagato antropologicamente. Siamo negli anni cinquanta e la protagonista, Ada, che prende parte alla spedizione etnografica, è una ragazza in bilico tra riuscita e fallimento, che attraversa amori e relazioni fino a deludere le aspettative di tutti, anche di se stessa. Una sorta di contro-eroina negli anni del boom economico, del progresso infinito e di un futuro di prosperità sempre crescente. Anni in cui nella Val d’Agri si è trovato un giacimento petrolifero e si è pensato, per un attimo, a una specie di nuovo Texas. “Ma il cambiamento della natura, la trasformazione dell’ambiente, sono fatti di lunghissimo periodo” ci dice Durastanti, “e forse noi umani non siamo così importanti e così significativi da trasformare in modo radicale la natura”. Ci ricorda “che si è appena saputo che molti studiosi hanno rinnegato il termine antropocene, non è corretto, non va usato”. Secondo la scrittrice non c’è mai stato un rapporto perfetto tra uomo e natura, anche popolazioni come certi nativi americani di cui si è magnificato il modo in cui convivevano con la natura, in realtà non sono mai state così in armonia. E la natura è in continua trasformazione indipendentemente dall’uomo o con il contributo dell’uomo. La Val d’Agri è sicuramente cambiata dopo il ritrovamento del petrolio, ma sta cambiando anche ora che del petrolio non ne vogliamo più sapere. Del resto una terra con ventisei ecosistemi diversi, dai calanchi bianchi abbacinanti alle foreste nere come il velluto, è una terra mai posseduta, mai raggiunta, per quanto presente nell’immaginario.

E infine nel libro terzo, Siamo stati felici nel futuro, grazie all’astrocapitalismo siamo arrivati sulla Luna. Ci siamo arrivati per restarci, per viverci. Vi abbiamo riprodotto la stessa vita che facciamo sulla terra, la stessa distribuzione delle persone e delle risorse, gli stessi equilibri/squilibri di potere, gli stessi confini. Ma A., la protagonista di questa terza parte distopica, fantascientifica, A. che ha solo un’iniziale per identificarla e farcela conoscere, A. dalla Luna vuole venire via. Vuole ritornare in Val d’Agri. Non si sa perché voglia tornare. “Quando si è stati via tanto tempo, anche se il posto dove siamo stati è proprio quello dove volevamo andare, c’è bisogno di ritornare. Per vedere tutto di nuovo, con gli occhi della seconda volta”. È il più conturbante, il terzo dei mondi raccontati in Missitalia. È ingombro di memoria, una memoria che si configura come rifiuto, uno scarto, un sottoprodotto sovrabbondante di cui non sappiamo che fare. È un mondo che ha rifiutato la parola Fine, che ha fatto della riproduzione infinita la sua cifra e il suo senso profondo. Ma Durastanti della parola Fine ha nostalgia. Di quella parola che nei libri di una volta stava nell’ultima pagina, isolata al centro, a suggellare una conclusione e un passaggio a qualcosa d’altro. Così sente il bisogno di chiudere il suo romanzo con la frase: “Dove la parola Fine era ancora possibile”.

 

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