Cominciando dalla fine: Marco Martalar è uno scultore oggi piuttosto noto che tiene il suo laboratorio all’aperto vicino ad Asiago. Le sue sculture di grandi dimensioni raffigurano draghi, leoni, unicorni, e più recentemente anche orsi. Realizzate con il legno recuperato dalle migliaia di alberi schiantati dalla tempesta Vaia durante una terribile notte del 2018, sono nate come un simbolo della rinascita del territorio trentino, colpito al cuore del suo patrimonio forestale dai fenomeni del cambiamento climatico. Una catastrofe vissuta come un’ingiustizia ma presto metabolizzata anche come opportunità economica. Fotografate e condivise sui social, con migliaia di like e cuoricini, le opere sono presenti oggi, oltre che in Trentino, in Veneto e in Lombardia: sempre più richieste e commissionate dalle istituzioni in quanto, come spiega un sindaco, “di comprovata capacità turistico-attrattiva”, in grado cioè di mobilitare le folle del turismo instagrammabile che fa da colla all’economia locale.
Claudia Boscolo – critica letteraria, insegnante, madre, filologa, ricercatrice specializzata in letteratura franco-italiana del Trecento – ripercorre la tragedia della tempesta Vaia, che deve il suo nome a un’inconsapevole imprenditrice tedesca, attraverso alcune intersezioni nella vicenda storica e contemporanea del Trentino dove vive. Il racconto della sua testimonianza si misura con eventi e iper-oggetti che l’hanno attraversata, travolta, spaesata ma anche dolorosamente illusa, e di cui fuori dalla provincia si sa poco o niente, se non attraverso la versione filtrata dalla notiziabilità dei media e dal clickbait.
Uno dei fili con cui si apre il libro è la deforestazione avviata già dalle opere di militarizzazione al seguito della Prima Guerra Mondiale, e proseguita nel secondo dopoguerra con la perdita della biodiversità nell’arco alpino. Un altro è il rapporto della popolazione con il non umano, rappresentato da grandi mammiferi come orsi e lupi che abitano da sempre il territorio, documentato dalla sua cultura religiosa e materiale, a partire dallo sterminio degli animali compiuto mille anni fa dalle milizie francesi in nome della cristianità. Un terzo motivo è ripercorso in parte attraverso lo sguardo di M49, lo sfortunato plantigrade – ribattezzato dalla stampa “Papillon” per le sue impressionanti doti escapiste – che pur evitando la nostra specie come la peste si trova oggi, suo malgrado, in stato in cattività nelle prigioni dell’uomo.
Questo maschio adulto discende dal progetto Life Ursus, avviato un paio di decenni fa con fondi europei, per il reinserimento controllato dell’orso nel contesto boschivo, in areali limitrofi a zone intensamente antropiche. Un successo andato oltre gli obiettivi iniziali, che oggi divide però i trentini tra le speculazioni elettorali portate avanti a suon di abbattimenti dalla provincia leghista, che cavalca le difficoltà della coesistenza interspecista, e la condiscendenza cittadina verso un fenomeno che tutto sommato “fa bene al turismo”. Tra queste ali il localismo fiorisce oggi come tradizionale scudo ideologico, circondato dalla cappa dell’eccezionalismo mediatico, la religione nazionale che laicamente rinvia da sempre i conti con l’oste e con questi anche le scelte che potrebbero modellare un futuro differente e meglio condiviso, in nome di un’eterna e indifferibile emergenza.
Boscolo è evidentemente a suo agio con una scrittura in “tecnica mista” che le permette di sostanziare la fabula di questo agile volumetto, alternando lucidamente l’autonarrazione allo sfondo antropologico, il pamphlet esistenziale al reportage ecologista. Ma soprattutto intrecciando le piccole storie riportate a scuola e in famiglia nell’ordito della storia profonda di una regione e di un continente. Accendendo una speranza per la provincia di un pianeta rovente che ha creduto di poter processare gli orsi al proprio posto.