Del Sessantotto si è parlato e si parla molto anche oggi, non solo in letteratura, e probabilmente se ne discuterà ancora per parecchi anni. È stato il periodo in cui, nel dopoguerra, le rivendicazioni operaie e studentesche, la rivolta del movimento femminista e la richiesta di diritti civili universali hanno raggiunto il loro apice. Non tutto è andato come auspicato, ma senza dubbio quel periodo è stato la linea di demarcazione tra un’epoca e un’altra, tra una stagione di strenua difesa del capitalismo e dei privilegi da parte della borghesia e dell’aristocrazia contro la richiesta che ogni persona contasse allo stesso modo. Quando cominciano i moti del Sessantotto francese, Claude Arnaud, autore e protagonista di questo romanzo autobiografico, pubblicato in patria nel 2010, ha tredici anni. Terzo di quattro fratelli di una famiglia benestante, l’adolescente non esita a gettarsi nella mischia delle manifestazioni parigine, introdotto alla lotta politica e sociale da uno dei fratelli più grandi, Philippe. Da qui inizia la storia di un ragazzo che vivrà in prima persona tutte le conquiste e le contraddizioni di un momento storico che ha segnato il nostro passato recente e che sembrava potesse essere un punto di svolta per un mutamento della società.
I cambiamenti sono stati radicali e percepibili ancora oggi. Claude, in francese, è un nome sia maschile che femminile, scelto dalla madre per mitigare il desiderio di avere una figlia femmina. La famiglia Arnaud è agiata e apparentemente serena, un padre che ama perdutamente la moglie, molto più giovane di lui e bellissima, con un rapporto conflittuale con i figli che non stanno crescendo come avrebbe desiderato: li avrebbe voluti all’Università per poi ricoprire ruoli di prestigio, ma loro sembrano avere intenzioni differenti. L’insofferenza dei tre figli più grandi esplode in tutta la sua forza ai primi moti di ribellione sociale. Claude percorrerà il suo cammino facendo tutte le esperienze possibili e immaginabili: droghe, amori promiscui, gruppi politici diversi, come a ricercare un’identità che sembra irraggiungibile o, meglio, che il protagonista non vuole definire. E via via, la strada sembra portarlo all’autodistruzione, scopo che raggiungerà il fratello Pierre, nichilista e alla ricerca di qualcosa che non c’è mentre l’altro vivrà la rivolta in maniera molto più individualista e intellettuale, tutti e tre in aperto contrasto con i principi paterni.
Durante questi anni la famiglia Arnaud e gli affetti di Claude scompaiono, stritolati dalla vita o dalle scelte estreme. “Le rivoluzioni sono belle all’alba, ma l’età è feroce con loro, e io non voglio invecchiare in un corteo”, dice l’autore a un certo punto, come se il procrastinarsi dei tempi porti sempre al fallimento. Arnaud non ci risparmia e non si risparmia niente, non edulcora i momenti tragici e crudeli che vive, non lenisce le ferite che spesso si autoimpone, come se il processo di redenzione (e non di negazione) debba passare forzatamente dalla sofferenza. Non che rinneghi ciò che ha vissuto ma vede i fatti, col passare degli anni, con occhi diversi. E questo passaggio esemplifica il nodo centrale del romanzo: “Chi avrebbe mai osato dire che la nuvola stupefacente su cui navigavamo non era la ‘vita reale’? Come potevamo immaginare che il nostro senso di irrealtà fosse dovuto anche ai privilegi che avevamo ricevuto dalla nascita, in un paese che la storia e la geografia avevano viziato, in una città invidiata ovunque? Come i protagonisti di Ladri di Mishima, avevamo perso la ‘misura di ciò che è reale’. Ci ha pensato il destino a dissolvere il nucleo di quel periodo. Proiettando individui ad anni luce l’uno dall’altro ha ampliato le distanze tra quelle particelle una volta così unite.” Distanze che da quegli anni non si sono più ricompattate mentre oggi, sotto i colpi di una restaurazione globale neo-capitalista (post?), ne avremmo un disperato bisogno.