Clarice Lispector, la grande autrice di origine ucraina che con la propria scrittura ha rivoluzionato la letteratura brasiliana del Novecento, termina di scrivere Il lampadario a Napoli, nel 1946, anno in cui viene pubblicato per la prima volta. Quando il suo grande amico e scrittore Lúcio Cardoso critica il titolo giudicandolo troppo dimesso, Lispector risponde che a lei piace proprio “per la sua povertà”. Una “povertà” che, se da un lato nell’opera trova riscontro nel significato dell’oggetto stesso (in sé tutt’altro che povero) evocato dal titolo, ovvero il grande lampadario che, ultimo fasto dei tempi di antica prosperità della sua famiglia, rappresenta per Virginia il simbolo della solitudine e dell’austerità della sua infanzia, dall’altro contrasta invece in modo quasi stridente – e perciò maggiormente evocativo – con la prosa lussureggiante che l’autrice adotta in questo suo secondo romanzo.
Nella grande tenuta di Granja Quieta, la piccola Virginia si aggira tra stanze enormi e spoglie, che costituiscono lo scenario vivido e solitario dei misteri e dei segreti che lei e il fratello maggiore Daniel inseguono tra ombre e boschi, dove il confine tra ciò che accade nella loro famiglia e la potenza dell’immaginazione infantile è sempre più labile. Lo stretto legame con il fratello, che da quando è nata la considera “solo sua”, che la protegge e la tormenta, segnerà anche il rapporto di Virginia con gli uomini, quando, ormai cresciuta, si trasferirà in città, luogo cui non sentirà mai di appartenere fino in fondo. Un evento familiare improvviso offrirà in seguito a Virginia l’occasione di tornare a Granja Quieta e di lasciarsi pervadere dalle sensazioni e dalle abitudini domestiche che tanto la respingono quanto la attraggono, per il loro potere di offrirle uno specchio in cui ritrovare – almeno in parte – sé stessa.
Il lampadario potrebbe dunque, a prima vista, essere letto come un romanzo in tre parti: la giovinezza di Virginia a Granja Quieta, la partenza per la città che coincide con una sorta di educazione sentimentale colma di riflessioni e incomprensioni, e infine il ritorno a casa. Tuttavia, questa lettura lineare, che pur trova il suo corrispettivo nello svolgimento della trama – che riserva un colpo di scena finale –, non renderebbe giustizia a un’opera unica nella sua magnificente irregolarità, dove i frammenti senza tempo incastonati nella narrazione gettano luce sull’impossibilità di seguire a priori regole prefissate, in letteratura come nella vita, e aprono alle molteplici sfumature di un flusso interiore che, lungi dall’essere in contrasto con il mondo esterno, lo rafforzano nella sua realtà – al contempo concreta e visionaria.
Leggere Lispector significa penetrare sottopelle, esplorare uno strato di mondo intermedio e fluido posto tra l’oggettività del reale e l’incanto del pensiero. Attraverso un uso del linguaggio tanto sapiente quanto spontaneo, la scrittrice indaga le sensazioni più intime dei suoi personaggi, scandaglia le percezioni, gli umori e le sfumature in grado di catturare l’essenza ultima – eppur sempre fuggevole – degli attimi che costituiscono la vita. Vita che Lispector trasmette con la scrittura non solo alle donne e agli uomini che popolano la sua opera, ma che trabocca da ogni angolo dell’ambiente circostante e permea la realtà tutta di un tocco di effimera, quasi impercettibile magia. La sua prosa è pervasa da una forte impronta poetica che, incontrandosi a tratti bruscamente con dialoghi duri, con descrizioni puntuali e acute introspezioni, destabilizzano e lasciano un senso di incompiuto, di incompreso, che ha a che fare con le profondità delle origini stesse del linguaggio e del suo arduo compito di restituire la vita così come la conosciamo, nel suo ingannevole intreccio di concrete oggettività e di fuggevole pensiero. L’indiscussa maestria di Lispector fa sì che dall’incontro dei due termini della più antica delle dicotomie (realtà esterna-pensiero interiore) fiorisca un mondo insieme concreto e visionario, che abbraccia senza giudizi, senza porsi limiti e senza gerarchie di valore il pensato e il vissuto personale da un lato e, dall’altro, l’universo, la natura, aprendo a spazi inesplorati di profondità e di – a tratti spaventosa – bellezza.