Leggere La città assediata è prima di tutto affacciarsi a un mondo nella sua complessità e in secondo luogo un corpo a corpo con la scrittura. Lispector riesce con la propria lingua a incarnare contemporaneamente una protagonista, un tempo e una corrispondenza. Si tratta di entrare in una narrazione mai piana e mai banale (anche quando le vicende non potrebbero che apparire tali), complessa e intrisa non solo di sottintesi e significati, ma anche di allegorie e citazioni.
La storia è la vicenda umana e di crescita di una donna, Lucrécia, nata in un povero sobborgo, che è anche il suo unico riferimento di vita (diventa importante essere guardata dalle altre ragazze perché pretesa da più uomini, ogni commento diviene legge, secondo quegli atteggiamenti tipici delle piccole comunità), che si farà strada fino alla grande città nella quale conoscerà gli svaghi e la cultura. Una sorta di continua educazione all’arte, al bello e al “lusso”, forse un’educazione alla ricerca. Fino a quando non resterà vedova e deciderà di tornare nel paese natio. Lo troverà cambiato, non più barbaro, ma impoverito di tutta la sua storia, della sua funzione di difesa e di vedetta.
Il paese diviene quindi specchio non solo del cambiamento in generale, quello che la Storia impone col trascorrere del tempo, ma anche e soprattutto il riflesso della maturazione e del disincanto (se l’essere nata in povertà ne avesse lasciato traccia) della donna. Lucrécia è simbolo del femminile, di tutto ciò che rappresenta nella società nascere per attendere a funzioni e mansioni, aspettative che devono essere soddisfatte: proposte da chiunque, perché chiunque possiede più voce in capitolo della donna stessa. Il corpo diviene mappa dell’evoluzione che ciascuno ha il dovere di operare per poter essere ciò che desidera: Lucrècia attraverso sé stessa si trasforma in riscatto anche per la madre, per un popolo, per il suo paesino. Ma sempre con quel corpo ritorna, scoprendo che in fondo per quanto si cambi esiste ineluttabilmente una radice, qualcosa che richiama a un’origine, quell’origine che viene, alla fine, riconosciuta e quindi impregnata del valore che (ora si sa) ha.
Con una storia di crescita, Lispector riesce a descrivere perfettamente anche il processo creativo, la spasmodica ricerca delle parole e della lingua, la necessità di trovare prima una voce per rintracciarne l’origine. Forse La città assediata meglio di altri suoi romanzi ci fa scorgere come la stessa autrice può aver vissuto tutta la vicenda personale e familiare della fuga dall’Ucraina all’approdo in Brasile, il Paese nel quale si è formata, nel quale ha deciso di essere scrittrice, lo Stato che l’ha consacrata come una delle scrittrici brasiliane più importanti dell’intero Ventesimo secolo.
Non si tratta quindi solo di romanzo, ma di un vero e proprio testamento poetico di una delle autrici che ha segnato in maniera indelebile non solo il Novecento ma la scrittura femminile nella sua totalità (Hélène Cixous in un suo saggio riguardo alla letteratura basiliana scrive che esiste uno stile A.C. e D.C., uno stile prima di Clarice e dopo Clarice); un lascito per chiunque lavori con le parole e per chiunque voglia trovare le epifanie nelle cose quotidiane e farle brillare. In questo libro c’è anche un po’ di quello spirito, così unico del Sudamerica, nel quale ogni tempo non è che uno scintillio da scovare e da custodire, proprio come ogni parola, ogni frase, ogni pagina: è La città assediata dalle distrazioni del mondo contemporaneo che deve ritornare a brillare prepotente.