CJ Leede / La sostanza gotica degli anni Ottanta

CJ Leede, Maeve, tr. di Gaja Cenciarelli, Mercurio, pp. 328, 19,00 stampa, euro 12,99 epub

Si può descrivere Maeve come un romanzo all’intersezione di diverse liste di romanzi. Dalla più singolare alla più canonica, queste categorie raggruppano ad esempio storie dove:

A. la nonna del/della protagonista è la figura più importante della sua vita (i.e. Va dove ti porta il cuore).

B. il/la protagonista lavora in un parco a tema (i.e. Soffocare di Palahniuk).

C. l’azione si svolge a Los Angeles, con la città co-protagonista (Chandler, John Fante, Pynchon, Elroy…).

D. un/una serial killer racconta le sue imprese in prima persona.

Qui se American Psycho è il nome che vi è venuto in mente, consolatevi: è anche quello che troverete nella quarta di copertina e nel 99% delle recensioni dove Maeve viene definito “American Psycho contemporaneo” o, altrove, “al femminile”. Ciò per alcune ottime ragioni – il confronto con Patrick Bateman, dopotutto, lo suggerisce l’autrice stessa, infilandolo verso la fine del romanzo tra i pensieri della protagonista – e altre forse meno buone.

Ma al tempo. Maeve, che nel libro in effetti ha ventisette anni, esattamente come l’antesignano newyorkese di Ellis, ma che immaginiamo più giovane, ama profondamente il suo lavoro a Disneyland e che consiste nell’interpretare ogni giorno Elsa, The Snow Queen, la principessa di Frozen. In pratica, fare la gioia di una turba di bambini senza farsi rovesciare il gelato addosso. È brava e apprezzata, ma odiata da colleghe e superiori normaloidi, perché si identifica al 100% con i poteri del gelo e del ghiaccio che rendono Elsa una principessa Disney diversa dalle altre. Ciò che rende Maeve speciale è però soprattutto l’altra sua passione: «Ho già ucciso tre volte in passato ma non saprei dire se mi sia… piaciuto. Non mi è nemmeno dispiaciuto. Forse l’esperienza più simile a cui potrai accostare l’omicidio è preparare la carne per cena. Si fa e basta». Come Elsa, anche lei ritiene di fare specie a sé, è un lupo in un gregge di pecore, come del resto sua nonna, una ex-icona di Hollywood, che l’ha accolta insegnandole a mimetizzarsi tra la folla senza tradirsi, per non finire abbattuta dagli uomini.

Maeve non reagisce a una condizione di abuso o a una storiaccia familiare. Al contrario, non capisce perché la violenza delle donne, a differenza di quella maschile, venga quasi sempre raccontata come un revenge movie. Ama la Strip e la vecchia Los Angeles, capitale della fiction, e non smetterebbe di raccontare aneddoti vintage su The Specials, Blob (il film e la band), Cramps, Dee-Jay Ramone o il video di Pat Cemetery. Conosce qualsiasi cosa a tema Halloween, che a LA può comprendere anche i Doors, la festa dei mostri quando, per un mese all’anno, può finalmente smettere di fingere e i poliziotti possono finalmente ammirare il sangue e le ossa umane che decorano il suo giardino in stile Ed Gein.

Se Bateman, rampollo psicopatico di Wall Street, è in grado di tracciare il profilo di chiunque abiti il suo mondo, semplicemente osservando le griffe che indossa, Maeve è un’emarginata, un’assassina sentimentale che si illude di trovare i suoi equivalenti letterari tra le pagine di Bataille o di Dostoevskij. Entrambi virtualmente privi di simili, soltanto il primo può confidare nella piena impunità: reali o immaginari, i suoi delitti hanno infatti la stessa sostanza degli anni ’80, di Reagan e Donald Trump. Quelli di Maeve la sostanza del gotico americano, l’altra faccia del sogno e di una solitudine sospesa tra la ferocia del lupo e il terrore della scimmia, in bilico sopra l’eterno abisso del desiderio.