Dopo L’età del noir: ombre, incubi e delitti nel cinema americano 1940-1960 (2007, Einaudi), probabilmente la più completa ed esaustiva disamina critica del film noir americano classico mai pubblicata nel nostro paese, Renato Venturelli prosegue con altrettanta competenza ed espande la sua indagine al periodo storico successivo e a un gruppo di film ancora più vasto e assai meno omogeneo, arrivando fino all’immediata attualità. La figura crepuscolare di Robert De Niro ottantenne dell’ultimo film di Martin Scorsese, The Irishman, è infatti l’immagine che conclude Cinema noir americano 1960-2020 e icasticamente chiosa, ma certo non esaurisce, la traiettoria del neo-noir o del post-noir che il libro delinea.
Il termine noir nasce, come è ormai largamente noto, in Francia alla fine degli anni ’40 per definire una gloriosa collana che Gallimard dedica alla narrativa crime e hard-boiled americana (ma presto anche gli scrittori francesi ne varcheranno con onore la soglia), la Série Noire di Marcel Duhamel, passando però quasi subito – sostituita dal più usato neologismo polar: incrocio fra policière e noir – all’ambito cinematografico grazie ai critici Borde e Chaumeton e al loro storico saggio Panorama du film noir américain, 1941-1953. Poco più tardi l’etichetta va a comprendere un nutrito gruppo di film, compresi fra il 1941 con Il falcone maltese di John Huston e il 1958 con L’infernale Quinlan di Orson Welles, uniti da caratteristiche molto riconoscibili: storie, prevalentemente ma non necessariamente criminali (più che poliziesche), che attingono alla lingua dell’hard-boiled; attori e attrici ricorrenti (Bogart, Mitchum, Welles, Lancaster, Lorre, Robinson, Garfield, Ava Gardner, Barbara Stanwyck, Lana Turner, Rita Hayworth, Gene Tierney, ecc.); uno stile visuale compatto che appare come il proseguimento dell’espressionismo cinematografico tedesco della Repubblica di Weimar trapiantato oltreoceano per la diaspora di registi, operatori, scrittori e attori ebrei o antinazisti fuggiti dalla Mitteleuropa dopo l’avvento del Terzo Reich (Billy Wilder, Robert Siodmak, Fritz Lang, Edgar G. Ulmer, Rudolph Maté, Karl Freund, Peter Lorre, Marlene Dietrich, ecc.). Un’estetica che impregna e cambia profondamente l’industria hollywoodiana specie nel campo delle medie e piccole produzioni.
L’invenzione critica francese offre consapevolezza agli stessi americani aprendo la dibattuta questione se il film noir (ora cominciano a chiamarlo così anche loro) sia espressione di un genere o di un movimento: piuttosto di uno stile e un mood, sembra sostenere Venturelli avvalorando le interpretazioni più aggiornate. Non si può più però parlare di noir classico a questo punto, e si dovrà introdurre la nozione di neo-noir o di post-noir per tutti i film posteriori alla seconda metà degli anni ’50, che non corrispondono ormai pienamente al canone di cui si è detto. Il passaggio avviene già molto presto con piccoli film innovativi e sovvertitori come, Un bacio e una pistola di Robert Aldrich (1955), i primi due lungometraggi di Stanley Kubrick Il bacio dell’assassino (1955) e Rapina a mano armata (1956), o ancor di più i misconosciuti “cult” Murder by Contract di Irving Lerner (1958) e Blast of Silence di Allen Baron (1959-1961).
E proprio da qui parte il secondo libro. Se gli eventi cruciali della fase noir classica sono stati la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda con le sue ricadute maccarthyste sulla società statunitense, quelli del neo-noir saranno l’attentato a John F. Kennedy, la Guerra del Vietnam e lo scandalo Watergate. Il bianco e nero e il taglio espressionista verranno gradualmente sostituiti dal colore e dal gusto psichedelico – giustamente si individua Point Blank, da noi Senza un attimo di tregua di John Boorman del 1967, con Lee Marvin, come uno dei film spartiacque in questo senso.
Mentre nuovi divi si affacciano allo schermo (Paul Newman, Lee Marvin, Charles Bronson, Clint Eastwood, Gene Hackman, Jack Nicholson, Steve McQueen, Robert De Niro, Harvey Keitel, Christopher Walken, Al Pacino, ecc.), e vecchie star trovano una nuova consacrazione (Burt Lancaster, Robert Mitchum), il neo-noir si biforca da subito in due principali direzioni: quella della meticolosa rilettura retrò del noir classico ricostruito a colori (dal meta-chandlerismo letterale o meno di Chinatown di Roman Polansky del 1974, con Jack Nicholson e Faye Dunaway, o di Marlowe, il poliziotto privato del 1975, con Robert Mitchum e Charlotte Rampling, fino al quasi-Ellroy di L.A. Confidential di Curtis Hanson del 1997) o quella dell’innovazione e dell’ibridazione con altri stili (il cinema orientale, a esempio Yakuza di Sidney Pollack del 1975, ancora con un grande Mitchum) o generi (la fantascienza, Blade Runner di Ridley Scott del 1982 o Robocop di Paul Verhoeven del 1987; l’horror, Angel Heart di Alan Parker del 1987; il fumetto, i Batman di Tim Burton o i Sin City di Rodriguez; l’erotico con il Basic Instinct di Paul Verhoeven del 1992 fino a In the Cut di Jane Campion del 2003).
Negli anni Settanta predominerà il “realismo urbano” con gli eccessi sensoriali degli inseguimenti automobilistici di Bullit (1968) di Peter Yates o de Il braccio violento della legge (1971) di William Friedkin. Sesso e violenza sono ormai espliciti e dalla trilogia eastwoodiana di Don Siegel con il duro Callaghan o Coogan che sia, fino al Charles Bronson de Il giustiziere della notte (1974) di Michael Winner, si sconfinerà nel quasi-western di Sam Peckinpah, in chiave romantica con Getaway! (1972) – che edulcora un romanzo molto più bello e cattivo di Jim Thompson, all’epoca non ancora rivalutato – o genialmente delirante come nel capolavoro ignorato Voglio la testa di Garcia (1974). Vi si aggiungono la smitizzazione marlowiana di Robert Altman, con Il lungo addio (1973), le innovazioni tematiche e produttive della Factory di Roger Corman, l’intimismo di Alan J. Pakula soprattutto nel suo Una squillo per l’ispettore Klute (1971), l’effervescenza della blaxploitation che tanto deve ai personaggi di Chester Himes, lo sperimentalismo di John Cassavetes con L’assassinio di un allibratore cinese (1976) o Gloria (1980), e l’esistenzialismo onirico e paranoico di La conversazione (1974) di F. F. Coppola o di Bersaglio di notte (1975) di Arthur Penn, che troverà la massima espressione nel Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, forse il film più significativo del decennio da cui trarranno ispirazione molti dei più riusciti noir metropolitani degli anni seguenti, da Il cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara a Ghost Dog (1999) di Jim Jarmush.
Negli anni Ottanta si slitta progressivamente verso quello stile, non più sporco ma luccicante, che efficacemente Venturelli definisce neon-noir, con nuovi divi come Richard Gere, Willem Dafoe, Bruce Willis, ecc., e lo yuppismo che si fa largo anche nel noir con American Gigolo (1980) di Paul Schrader, mentre si rivalutano postumamente o si consacrano definitivamente, trasponendone (e talora stravolgendone) sullo schermo le opere, i grandi narratori noir fino allora confinati ai paperback: il sulfureo e immenso Jim Thompson, l’ex galeotto Edward Bunker, Elmore Leonard o James Ellroy. Il decennio segna l’inizio della moda del remake inaugurata da Il postino suona sempre due volte (1984) di Bob Rafelson, che con le torride scene di sesso fra Jack Nicholson e Jessica Lange presume di rinverdire il più casto ma non meno efficace classico di Tay Garnett del 1946 con John Garfield e Lana Turner. Emergono nuovi talenti che lasceranno un segno indelebile: i fratelli Joel e Ethan Coen che esordiscono con Blood Simple (1984); David Lynch che, dopo Eraserhead, The Elephant Man e Dune, passa al noir con Blue Velvet (1986) e Cuore Selvaggio (1990) oltre che aprire la strada all’epopea, ancora in atto, delle future serie tv con Twin Peaks (1990); Ridley Scott che dopo l’exploit di Blade Runner, realizzerà Chi protegge il testimone (1987), ma soprattutto Black Rain (1989), apoteosi quasi da video-clip del neon-noir e nuovo innesto col cinema orientale.
I Novanta, oltre che vedere l’iconizzazione della lunga e gloriosa carriera di Brian De Palma con Carlito’s Way (1993), sono segnati soprattutto dall’esplosione pulp di Quentin Tarantino, con Le iene (1992) e Pulp Fiction (1994), oltre che il meno iconoclasta ma altrettanto geniale Jackie Brown (1997) – unica sua sceneggiatura non originale ma trasposta da Elmore Leonard. Ed è indubbiamente Tarantino, insieme ai confermati fratelli Coen di Crocevia della morte (1990) e Fargo (1995), a rinnovare la scena, lasciandosi indietro la bulimia stilistica dell’Oliver Stone di Natural Born Killers (1994) o il formalismo divocentrico del Michael Mann di Heat (1995).
Dall’anno 2000 a oggi si consoliderà la svolta verso il digitale HD, con esiti visuali ormai remoti dai modelli originari a partire almeno da Collateral (2004) di Michael Mann con Tom Cruise. I fratelli Coen vedranno la loro affermazione definitiva da Il grande Lebowski (1997) a L’uomo che non c’era (2001) fino a Non è un paese per vecchi (2007) da una sceneggiatura di Cormac McCarthy, mentre David Fincher, modello estetico del decennio precedente con Fight Club (1998), da Chuck Palahniuk, rinnoverà l’abusato clichè del serial-killer con Zodiac (2007) per approdare più recentemente con l’efficacissimo Gone Girl (2014) a definire possibili strade future del noir come social drama. Emerge il cerebrale e artificioso Christopher Nolan con Memento (2000) e i suoi oscuri Batman, mentre David Cronenberg realizza un indimenticabile distico noir con A History of Violence (2005) e La promessa dell’assassino (2007), in cui Viggo Mortensen conferma la sua icona di duro dalla faccia d’angelo. Il grande William Friedkin ricompare con un capolavoro minore Killer Joe (2011) mentre Paul Thomas Anderson tenta un difficile adattamento da Thomas Pynchon con Vizio di forma (2014) e il danese Winding Refn percorre un’aspra strada in equilibrio precario tra calligrafico manierismo e velleità sperimentali con Drive (2011), Solo Dio perdona (2013) e il quasi horror The Neon Demon (2016), per esasperare le sue manie nella lentezza catatonica della serie tv (giustamente?) abortita Too Old to Die Young (2019). Una vera e propria galassia in espansione che le quasi 500 pagine del volume perlustrano e profilano in dettaglio.
Che sia un genere o uno stile, il noir, con le sue remote o contemporanee derive neo-noir, resta tuttora uno dei fenomeni visuali più attivi e vitali, il libro di Venturelli con la sua minuziosa analisi, oltre che fornirci una filmografia ideale da ripercorrere, ci aiuta a comprendere come un modello di cinema classico non si sia mai estinto reincarnandosi in forme, estetiche e narrazioni distinte, ed evitando così l’anchilosamento in calchi perennemente uguali a sé stessi. Ormai – constata Venturelli – le prospettive presenti e future del noir eludono e superano perfino il mezzo cinematografico: “si verifica addirittura il passaggio in massa a serie tv o piattaforme digitali di registi che costituivano l’ossatura tradizionale di quel cinema americano “adulto” di genere in cui si era sempre sviluppata la produzione noir e che adesso confluisce in una più ampia galassia crime”.