Il romanzo americano contemporaneo si sviluppa in un ambito alquanto eterogeneo. Al di là dei generi letterari e dei loro fecondi incroci, esso prende forma in complessi intrecci: dalle peculiari voci narrative (gender, minoranze etniche e religiose), dalla molteplicità di contesti spaziali (est, ovest, sud, nord, aree metropolitane, periferie urbane, zone di frontiera, comunità rurali), dalla ricca tradizione letteraria delle numerose lingue che compongono il melting pot statunitense, e così via. I contorni di questo composito universo narrativo, però, appaiono tematicamente intertestuali e intrinsecamente interdisciplinari, e al suo centro pulsante si trova l’America stessa, nelle sue continue, tumultuose mutazioni: un mondo che, proprio per la sua vorticosa e perenne metamorfosi, appare sfuggente, difficile da cogliere e rappresentare.
Per riuscire nell’impresa Chris Offutt, romanziere e autore televisivo nativo di Lexington, nel Kentucky, parte dalla sua terra, dalla gente e dalle tradizioni che ben conosce, e, con una serie di centri concentrici, cerca di arrivare al cuore dell’esperienza americana, analizzando e mettendo in questione i suoi miti fondativi, l’immaginario che (de)forma le menti dei connazionali, il loro vissuto quotidiano e i loro sogni, la storia sanguinosa che ha determinato il Paese che abitano.
Il suo secondo romanzo, Il fratello buono, pubblicato di recente da minimum fax ma apparso nel 1997, è ambientato nel cuore del Kentucky e in un Montana non meno selvaggio, ritratti con viscerale amore per i loro paesaggi naturali, e una lucida visione delle loro entità sociali.
È una classica storia di vendetta e redenzione, di scoperta di sé e della realtà. Il protagonista, Virgil Caudil, è un uomo di trentadue anni che vive a Blizzard, località collinare “vecchia e sfinita”, in un territorio creato da “un Dio impazzito”, popolato da gente che ignora il mondo che si estende al di là del fazzoletto di terra in cui nasce e tira le cuoia, che abita in case dalle porte dipinte di verde per tenere lontano le streghe, e dove l’unico cinema, ormai dismesso, si erge “come una gigantesca lapide”. Una landa in cui regna un codice d’onore tribale feroce quanto antico, dove la sola legge riconosciuta è quella del taglione, con faide che si protraggono per generazioni senza che neanche se ne conosca più l’origine, e dove ormai si uccide “per abitudine”.
Per questo Virgil trova rifugio nei lussureggianti boschi in cui è cresciuto, in simbiosi con la natura, “l’unico punto in cui si sente sicuro”, con poche aspettative: una ragazza che forse un giorno sposerà, un lavoro modesto, il ruolo di caposquadra che prima o poi assumerà. Questo piccolo mondo antico va in frantumi alla morte del fratello maggiore, Boyd, vitalistico e inquieto, autentico deuteragonista, rappresentato in assenza ma sempre presente in Virgil e nei ricordi di tutti, un uomo “diverso”, che “non ha mai seguito una regola che fosse una”, come lo dipinge una venditrice di whisky di frodo che vive nel fitto d’una foresta, in una scena straordinaria per forza evocativa e simbolismo, prima tappa di un percorso luttuoso nei meandri di valli, torrenti e boschi alla ricerca della memoria del fratello.
A ucciderlo sanno tutti chi è stato, e tutti si aspettano che Virgil, com’è nel codice d’onore di quei luoghi, lo vendichi ammazzando il suo assassino. Sorta di Amleto del Meridione americano, nipote del Nick dei Quarantanove racconti di Hemingway e dell’Ike delle storie di Scendi Mosè di Faulkner, Virgil prende tempo, non sa decidersi. È un tipo pacifico, a cui per vivere basterebbe “solo una mucca e un banano”, e intimamente sa che seguire quell’antico rito della vendetta lo perderebbe. Costretto a uccidere, lui, “che non andava nemmeno a caccia”, che “voleva solo la capanna di tronchi del padre ed essere lasciato in pace”? Come sottrarsi? Ed è giusto sottrarsi? Dimidiato dai conflittuali desideri di pace e di vendetta, si trova in mezzo al guado, ma sa che è solo questione di tempo, prima o poi arriverà al punto in cui “non rimane altro da fare che agire”. Infatti, dopo due magistrali scene, la prima davanti alla tomba del fratello, l’altra ambientata nella capanna di Morgan, un vecchio saggio “dalla pelle nera e dai capelli pieni d’insetti” che vive come un eremita, e che gli dispensa invano un preziosissimo consiglio, Virgil capisce che il suo destino è segnato e fa quel che tutti si aspettano da lui.
Inizia così la seconda parte della vicenda, con un viaggio iniziatico nel ventre dell’America. Virgil fugge da se stesso e dal suo passato, con un’identità rubata a un morto attraversa come un sonnambulo una serie di stati – Indiana, Illinois, Iowa, South Dakota, Wyoming –, fino a trovare rifugio nel Montana, dove, fermandosi in una capanna sperduta nei boschi, passerà “come sepolto” un gelido inverno che è anche e soprattutto dell’anima.
Qui il romanzo apre alla parte decisamente politica, in cui Offutt continua la spietata dissezione della realtà americana. Virgil, ora Joe, si ritrova in pieno Far West, un luogo dominato dalla paura, pullulante di sociopatici, fanatici delle armi che “imbracciano fucili automatici con la stessa indifferenza degli attrezzi da giardino”, con locali pieni di cartelli dalle scritte deliranti, come TEMI IL GOVERNO CHE TEME IL TUO FUCILE, o IL MONTANA AGLI AMERICANI LIBERI. Una terra tagliata fuori dal tempo, dove vige ancora il “codice della frontiera”, un mondo caotico e perduto in cui “il giusto e lo sbagliato non esistono più”.
Lì s’imbatte in una sorta di setta, i “Patriots”, suprematisti bianchi, razzisti e fondamentalisti religiosi che “vanno in giro con abbastanza armi da combattere una guerra”, rimasticando e distorcendo frasi dei “padri fondatori” della nazione, della Dichiarazione d’Indipendenza e della Bibbia, monomaniaci che propugnano la separazione delle razze, che chiamano “uomini-fango” i neri, che negano identità e diritti agli indiani, individui defraudati ed emarginati che si aggirano come spettri nelle strade di questo Montana da incubo. Esaltati che non mandano i figli a scuola, non pagano tasse, senza patente né telefono a casa per non figurare nei database di uno stato poliziesco, vecchie famiglie un tempo di allevatori che vivono con meno di cinquemila dollari l’anno, che non riconoscono il governo federale in nessuna forma, che credono nella supremazia della legge locale, che eleggono un proprio sceriffo e mettono taglie sulla testa di poliziotti, avvocati e giudici, che battono persino una propria moneta.
Sì, anche questa è l’America di oggi, inquietante scoperta di Virgil/Joe che, chiuso nel suo bozzolo, prima d’allora non aveva mai visto un uomo di colore, né un centro commerciale. È proprio tramite questo espediente, osservare la realtà americana con gli occhi di un outsider, che Offutt porta all’attenzione l’abnormità della faccia nascosta del suo Paese, mettendo il dito nella piaga dei mali endemici di quella società: razzismo, intolleranza, segregazione, violenza, disoccupazione, povertà, alienazione, distruzione sistematica della natura e delle risorse.
Eppure, proprio in quella terra che sente così estranea, Virgil trova una famiglia disposta ad accoglierlo, degli affetti autentici che prima gli erano preclusi, riesce a “riempire il vuoto che sente dentro”, a mettersi in gioco e scoprire l’amore, a entrare in sintonia con donne e uomini che si sentono traditi e abbandonati “dal Governo”, come gli viene spiegato: “Un sacco di piccole città sono rovinate per sempre. Non c’è abbastanza cibo e acqua per tutta questa gente. Dannazione, il Montana riesce a stento a tenere in vita il bestiame”.
A ben vedere, il protagonista finisce in un cul de sac: quella terra lontana migliaia di chilometri non è poi così diversa dal mondo che ha lasciato. Anche lì risuonano le solite parole, “vendetta”, “nemici”, “imboscata”, anche lì si uccide senza una vera ragione, anche lì c’è sempre qualcuno da vendicare, un onore da difendere secondo il peculiare concetto di giustizia del West, anche lì imperversa il tribalismo delle contee americane incagliate nella natura e immiserite da dissennate politiche finanziarie, sideralmente lontane dall’intellettualismo progressista delle grandi metropoli. Infatti, a Virgil/Joe i “Patriots” ricordano “gli abitanti del Kentucky che erano rimasti fedeli alla Confederazione, ne issavano la bandiera e giuravano che il Sud sarebbe risorto. Dimenticavano che il Kentucky non aveva mai fatto parte davvero di Dixie, e la secessione aveva portato solo distruzioni terribili”. No, non se ne esce: l’America è prigioniera dei suoi miti fondativi, distorti dal tempo e da ipocrite rimozioni. E così, tra un’avventura e l’altra, in un crescendo drammatico, si arriva all’epilogo, che ovviamente lasciamo scoprire al lettore.
Con questo notevole romanzo Offutt dipinge così la situazione odierna d’una parte sostanziale degli Stati Uniti, senza ipocrisie né infingimenti, come si conviene a un vero scrittore, un narratore che ha il coraggio di gettare lo sguardo nelle piaghe purulente di una società che non ha mai fatto i conti con il proprio passato di sangue e di sterminio. Con sapide descrizioni realistiche, l’uso consapevole del simbolismo della natura tipico della grande tradizione letteraria americana, dialoghi incisivi e profondi, venati dal caratteristico umorismo della frontiera, mette in scena una storia tenera e brutale che si configura come una riflessione intensa e dolorosa sul retaggio di violenza che attanaglia l’America sin dalle sue origini. Non è l’America rifulgente che brilla nel nostro immaginario, ma il suo ventre nascosto, un Paese scisso e lacerato da odi ancestrali. Meglio di mille trattati sociologici, questo romanzo spiega le ragioni e il successo del trumpismo, in incubazione all’epoca in cui fu scritto, pietra tombale della triade fondante degli Stati Uniti: libertà, uguaglianza, democrazia. “Stiamo diventando nazisti?” chiede a un certo punto Virgil. “Non in senso letterale”, risponde un amico appena conosciuto. “Ma stanno succedendo le stesse cose che precedettero l’avvento del Terzo Reich. Il paese è al verde. Non c’è lavoro e la gente non si fida del governo”. Non a caso, la storia si chiude con un’epigrammatica parola che racchiude la vicenda e la realtà americana, risuonando, appunto, come uno sparo: shoot.