La danza e la pressione di un tasto sono una risorsa umana, si affacciano su un’azione, sulle azioni, sullo scopo. E quando gli scopi passano attraverso il labirintico mondo dei neuroni di noi sapiens si sa come (quasi sempre) finisce. O inizia. Una via di mezzo fra l’essere terrestri e le divinità, fra il possesso della matematica e ciò che si trova fra le zampe del materialismo e la molle coscienza eterna (ma tanto eterna non è, nemmeno nelle narrazioni giunte fino a noi dagli Orienti) dei residenti in Olimpo. Colpisce il sentimento che aleggia nelle cose famigliari che Chiara Valerio ci racconta, tra una famosa mela che cade e la tecnologia avanzante di epoca in epoca, dall’osso femorale usato come clava a Alexa che imita le voci di vivi e morti, “funzione” ben diversa da quella degli organi umani.
Colpisce come l’autrice tenga stretta la razionalità, interamente presente all’interezza dei nostri sensi, tanto da coltivarsi i versi di Patrizia Cavalli come somma di infiniti in cui si ritrovano gli ologrammi prodotti da Solaris, la contessa Olenska dell’Età dell’innocenza, Rachael di Blade Runner, Klara del romanzo di Kazuo Ishiguro, tutti mondi in cui le trasmigrazioni fra l’uno e l’altro sono possibilità elettriche contenute nella nostra bolla. Turing non ha inventato soltanto un test. E Leopardi già si rivolgeva all’Età delle macchine.
Questo libro è un esercizio di equilibro fra domesticità (non sacerdotale, per intenderci) e funzioni alte e basse dei dispositivi, dal Commodore a HAL 9000. Sono molti i punti di vista su quanto dobbiamo iniziare a capire, e questo fa parte della storia del mondo e dei suoi mutamenti, fermo restando che noi si resta sempre indietro e nessuna conoscenza è innata o costruita per sempre. Ma le esperienze materne, e quelle più strettamente famigliari, ci fanno entrare nel mondo, e la molteplicità delle vie è la ricchezza con cui noi umani abbiamo a che fare. Venendo dal nulla. È il linguaggio che Valerio adotta come suo perimetro, intendendolo perimetro universale dove dentro possono starci Fleur Jaeggy e Guerre stellari, lo spazio multidimensionale e le due dimensioni che ci siamo inventati. La loro utilità è quella dello schermo e delle mappe. Leggendo La tecnologia è religione possiamo percepire che tutto intorno a noi non c’è niente di vero, ma molto di utile. Valerio confessa che non capiva le radici immaginarie di Leibniz nella sua Geometria. E, da adulta, conclude che noi siamo “l’equivalente di una radice immaginaria” e non incasellati nell’utile concetto del binarismo. Mentre la straordinaria varietà della natura è fondamentalmente queer. Senza forzature, questo passo avvince e meraviglia. Valerio sa come tenersi libera nel suo personalissimo sermo generalis. Tra il mar Rosso, dove le acque si dividono, e le immagini di Picasso, cadiamo in un mondo che si ripiega continuamente senza che ce ne accorgiamo, e forse in questo preciso momento abbiamo bisogno di Kant e Leibniz, di Dirac, Rovelli e Labatut per salvarci l’anima. È un modo di dire, ma sempre prossimo alla natura della nostra mente.
Nel casino di una Terra a cui l’umano addossa meccaniche distruttive mentre si sollazza con spose immateriali, in attesa di morire, ci chiediamo come ancora si possa innamorarsi di un vecchio mouse abbandonando al loro destino i personaggi dell’Età dell’innocenza. La quantità di memoria è illimitata? Mentre Valerio conclude il suo multiforme saggio, improvvisamente appare la Marchesa di Merteuil nelle Relazioni pericolose: nel film di Stephen Frears, tratto dal romanzo di Choderlos de Laclos, la faccia imbrattata di belletto della Marchesa lentamente svanisce nel buio circostante. Fuga dal futuro? Destino di noi immersi nel nostro schiumoso presente?