Nella prefazione a un breve saggio di Georges Duby sul matrimonio medievale (Matrimonio medievale. Due modelli nella Francia del dodicesimo secolo, il Saggiatore 1981), l’antropologa Ida Magli notava che, a dispetto del tema, nel testo non emergono, se non per qualche accenno, “né i sentimenti, né le emozioni, né i pensieri, né, in una parola, la vita vissuta dalle donne e la loro reale condizione. Le donne, in altri termini, continuano a rimanere oggetto e non soggetto di storia; la storia non riesce a essere narrata dal loro punto di vista. Sarà mai possibile fare questo? Forse no, o almeno non del tutto, perché la maggior parte della documentazione di cui ci serviamo non ci è stata lasciata da loro e non ci fa ascoltare la loro voce”.
La questione della narrazione delle donne nel Medioevo europeo (nel duplice senso di narrazione sulle donne e da parte delle donne stesse) è centrale nel libro di Chiara Mercuri, che riflette su alcuni temi (l’amore cortese in primis) raramente considerati in merito alla loro aderenza o meno alla situazione reale dell’epoca, alla condizione femminile, al matrimonio. Un libro forse discutibile in alcuni punti (a partire dal titolo) e con qualche semplificazione, ma intrigante per il capovolgimento del punto di vista: per l’esperimento di una narrazione differente.
La protagonista è la poetessa Maria di Francia, vissuta del XII secolo e sulla quale le notizie biografiche sono pressoché nulle (tanto da far dubitare ad alcuni della sua reale esistenza), che l’autrice identifica (non è la prima e ha molti oppositori) con Maria contessa di Champagne, nata nel 1145, figlia del re di Francia Luigi VII e di Eleonora d’Aquitania. Mercuri non cerca di ricostruire la biografia della contessa ma si concentra invece sulla rivoluzione dei sentimenti che lei avrebbe tentato di mettere in atto: una nuova idea della donna, del matrimonio (al quale era tendenzialmente contraria), del rapporto tra i sessi e dell’amore, in un contesto, quello dell’Europa medievale, dove le donne erano proprietà dell’uomo e prive di ogni diritto, costrette a matrimoni combinati, continuamente minacciate di stupro. Come avrebbe provato a fare questo? Attraverso la narrazione e l’uso della finzione. Alla poetessa Maria di Francia sono attribuiti una dozzina di componimenti poetici a tema amoroso (i lais, accompagnati da una viola o un’arpa), alcune favole e una traduzione in volgare del Purgatorio di San Patrizio. Per volontà e su commissione di Maria di Champagne, nell’interpretazione di Mercuri, sarebbero stati scritti il trattato De Amore e il romanzo cavalleresco Lancillotto o Il cavaliere della carretta, rispettivamente di Andrea Cappellano e Chrétien de Troyes, entrambi attivi alla corte di Champagne. In questi due testi emergono, a volerle leggere, visioni rivoluzionarie, per i tempi, sull’amore e sulle relazioni sentimentali; si parla di atto sessuale, di desiderio femminile e – senza condannarlo – di adulterio.
La figura e il destino della madre, Eleonora d’Aquitania, ebbero probabilmente forte influenza e ripercussioni sui pensieri di Maria. Il matrimonio tra Luigi VII ed Eleonora si rompe quando Maria ha sette anni, in seguito a uno scandalo; Eleonora, una intellettuale che riuniva artisti e scrittori presso la sua corte, viene accusata di immoralità e lascivia. In seconde nozze sposa il duca di Normandia, futuro re Enrico II d’Inghilterra, ma anche questo matrimonio finisce male; Enrico diventa violento e oppressivo (noto è l’omicidio dell’arcivescovo di Canterbury dentro la cattedrale) e nel 1174 segrega Eleonora nella torre di Winchester, nello Hampshire. Nello stesso anno la contessa di Champagne scrive una lettera, riportata nel De Amore, in cui dichiara che l’amore tra i coniugi è impossibile. È uno dei motivi per cui il trattato fu condannato dalla chiesa e circolò clandestinamente; le tesi compromettenti erano molte, basti pensare che Andrea Cappellano (un prete!) mette nell’inferno non le donne lussuriose ma quelle continenti e le vergini, e rivendica inoltre il diritto di amare anche per gli uomini di religione.
L’amore è inteso come riconoscimento del valore e dell’amabilità altrui; prescinde dal contraccambio e non ha nulla a che vedere con il possesso, con la gelosia, con la coercizione. Amare è esercitare una forma di virtù, alla quale possono concorrere tutti, ricchi e poveri. L’amore cortese, in questo senso, non è l’aspirazione di una classe o élite ma ha una accezione trasversale: è nobiltà dell’anima (il cor gentile di Guinizzelli) in contrapposizione all’amore brutale e forzato della società feudale. Praticano l’amore cortese, quindi, coloro che hanno un’idea non canonica di amore. Non asessuato e platonico, come nella traslazione distorta del Romanticismo, ma un amore molto fisico e reale, come quello tra Lancillotto e Ginevra.
“I Romantici” – scrive l’autrice – “che rilessero le storie dei cortesi a distanza di molti secoli, non seppero, o non ne furono interessati, collegare alle loro parole i crudi fatti di cronaca che le avevano ispirate. Pensarono invece a un espediente letterario, un topos narrativo che doveva permettere al protagonista di assumere nella fabula le sembianze del cavaliere-salvatore. Quella torre è invece per i cortesi una prigione vera, fatta di calce e di pietra come le molte torri che si usavano per recludere, nel Medioevo, le mogli, le madri, le sorelle o le figlie ribelli, disobbedienti o che semplicemente rifiutavano di sposarsi”.
Nel ciclo arturiano i codici cavallereschi appaiono come un ostacolo da superare, una criticità, a differenza di quanto accade nella Chanson de Geste, l’altra grande saga del Medioevo. Il Lancillotto (1176-1181) di Chrétien de Troyes – nel cui prologo è citata la “Signora di Champagne” – è, in particolare, la celebrazione di un amore clandestino e adultero, di un cavaliere a cui i codici cavallereschi stanno stretti. L’adulterio tra Lancillotto e Ginevra non viene scoperto né punito, e non è conseguenza di un filtro magico come nel caso di Tristano e Isotta; inoltre il marito di Ginevra, Artù, non si è macchiato di colpe. L’amore, semplicemente, accade. E per il vero amore si può rinunciare a tutto, anche e soprattutto all’onore, il valore più alto per la società medievale e il più irrilevante e basso per Maria di Francia, questa ipotesi di eroina medievale. Emblema del disonore è la carretta, una sorta di gabbia di ferro su ruote nella quale erano trasportati i prigionieri da una contrada all’altra: il segno della massima mortificazione dei senza onore. Lancillotto esita (e di questo lo rimprovererà Ginevra) ma poi sale su una di queste carrette, quando questo sembra l’unico espediente per raggiungere l’amata, prigioniera di Méléagant. Un cavaliere davvero d’altri tempi e fuori canone.
“Il Lancillotto è ideato da una donna col fine di convincere gli uomini a restare in patria e usare la loro forza e le loro armi per difendere le donne dallo stupro. Il cavaliere cortese è quello che non commette abuso, molestia o pressione sessuale, né sulle ‘proprie’ donne né sulle donne altrui. Il cavaliere cortese è quello che sventa lo stupro e la soperchieria ai danni di una donna, senza chiederle in cambio alcune corvée o sottomissione sessuale. Proprio a questo serve la figura di Lancillotto, a proporre un modello di uomo e di armato – che noi definiamo ‘cavaliere’ – che antepone al proprio vantaggio la difesa delle donne”.
In questa prospettiva il Lancillotto è un manifesto femminile, un atto di denuncia della condizione delle donne. È una presa di consapevolezza che l’amore libero e sincero può comportare anche l’adulterio; a meno di non rinunciare del tutto al diritto all’autodeterminazione sentimentale e sessuale. Una posizione molto forte tuttora; e indicative dell’impatto che potè avere nel Medioevo sono le riscritture successive dell’opera, nelle quali la storia d’amore ha una fine tragica (la punizione per l’adulterio) così come tutto il regno arturiano di Camaalot.
(Ri)pensare ai romanzi cavallereschi come letteratura impegnata e politica è complesso in particolar modo quando si prova a spostare il focus – le luci in sala – sulla parte femminile della storia. Complesso perché manca un contesto (lo spazio narrativo delle donne) in cui questo sia già stato fatto. Quando accade, come nel libro di Mercuri, l’errore più facile è quello di criticare il singolo elemento (l’identificazione di Maria di Champagne con la poetessa Maria di Francia, tutto sommato non così rilevante: è in ogni caso esistita una Signora di Champagne alla quale fanno riferimento i due scrittori), con la conseguenza di portare in secondo piano i temi portati, il soggetto, l’osservazione critica e destabilizzante.
Sempre Ida Magli, in quella prefazione a Duby riportata all’inizio, osservava che gli storici non hanno riconosciuto che il più importante documento lasciato dalle donne è il loro silenzio, e bisogna impegnarsi a ricostruire la loro storia come si fa con le civiltà prive di scrittura, che hanno lasciato tracce di altro genere che l’archeologia raccoglie e tenta di interpretare. Una ricostruzione per forza di cose ipotetica, sommaria, questionabile; che evidenzia, però, l’incompletezza e le crepe del vasto campo delle certezze (la documentazione scritta, i nomi, i fatti, le biografie, i monumenti di pietra) prodotte dalla parte maschile del mondo.