Nel suo ultimo romanzo Chiara Gamberale ci invita a un viaggio. Forse un viaggio di formazione anche se svolto non più in giovane età. Chiara, alter ego letterario dell’autrice, si trova in una penosa situazione di stallo. Abita in un quartiere borghese di famiglie che si ritengono “normali” e che nelle loro conversazioni parlano quasi esclusivamente di arredamento e di figli. Molto in contrasto con l’ambiente e le relazioni che lei ha vissuto da ragazza al liceo Socrate con amici e amiche, per alcuni dei quali, provava una sconfinata ammirazione e si sentiva felice.
Chiara vive da sola con la sua amatissima figlia, avuta quasi per caso da un uomo che solo saltuariamente viene a far visita. In quel quartiere si sente un pesce fuor d’acqua. Un giorno le balena un’idea e prende vita un viaggio interessante, coinvolgente, a volte anche emotivamente rischioso. D’altra parte lei stessa è convinta che senza traumi – nascite, morti, matrimoni, separazioni, incidenti – si vive come in una palude. Vuole ardentemente che le torni a battere il cuore. Approfitta così dell’incontro occasionale con un vecchio compagno di scuola che faceva parte delle persone che lei, da ragazza, stimava di più. I due conversano brevemente delle loro vite e Chiara capisce che il tracciato del suo cammino potrà essere segnato dagli incontri con chi nel passato aveva ammirato e deciso di imitare – come stelle polari.
Dimmi di te è la chiave d’accesso a queste esistenze. Con cortesia e sensibilità Chiara le scruta, condivide ricordi, pone domande a loro e a sé stessa. Parte da Roma e arriva a Palermo, a Parigi a Milano e Reykjavík, per terminare il viaggio all’isola di Ventotene. Segue una diaspora delle storie e degli affetti che non è stucchevole gioco di ricordi e di regressioni infantili, ma un pellegrinaggio esistenziale intorno ad alcune domande: “Come è possibile che l’amore resista alla coppia?” E: “In cosa consiste la fede in Dio?”. Su tutto prevale la vita quotidiana, la vita vissuta delle persone che la mette di fronte alla profondità e alla complessità dell’esistenza. Nel libro si parla di problemi con la droga, si parla di disabilità, si parla di forti disagi di coppia e di “tradimenti”, si parla di bambini e di futuro. Di dolore e di piacere, delle gabbie sociali e culturali che ci costringono in una condizione o ci favoriscono in altre.
In definitiva, nel viaggio si scoprono gli altri. Ragazzi e ragazze che già si conoscevano in gioventù e che si sono misurati con la sfida della crescita. Un gioco di specchi che rimette la protagonista e il lettore con i piedi saldamente piazzati nella realtà, con gesto ruvido di sfida che prende la forma della domanda: “Dove la metti la nostalgia per tutto quello che è stato e dove la metti la nostalgia per tutto quello che invece non è stato?” Ma per questo tema siamo ancora a Reykjavík: è l’ultimo colpo di coda di una protagonista che quando si trova sul traghetto che da Ventotene la porta sulla terra ferma, proprio nel punto in mezzo al mare dove non si vede più il porto di partenza e non ancora il porto di arrivo a Formia, ci fa capire che ormai la palude da cui fuggiva è lontana e lei stessa è in grado di prendere il mare aperto.