Ci sono poeti e poetesse che vivono come fiori, appartati in un giardino botanico. Misteriosi non perché stiano al buio, neanche per sogno, non fanno altro che esporsi come girasoli verso il loro astro. Che poi è la stella di tutti, non si capisce perché proprio a loro questa dovrebbe rivolgersi più che ad altri. O meglio, lo si capisce soltanto quando si apre un libro e ci si rivolge ai versi che scrivono, forse senza comprenderli (talvolta), ma sempre avendo la sensazione di sfiorare una creatura nuova, che prima non esisteva, desiderosa di luce e di noi. Strani eventi allora accadono, la notte si scambia con il giorno, il sonno viene a mancare quando serve, del riposo ci si dimentica, tutto perché la poesia, quella poesia lì, a differenza del suo autore, è evasa dall’orto, ha oltrepassato i cristalli, si è posata sui nostri tavoli, sulle sedie, sui comodini, o sui sedili di un’automobile.
Strani eventi, fra cui il parto (o partenogenesi) di un nuovo libro, una cascata più o meno grande di pagine dove fanno mostra di sé i versi, quegli altrettanto strani aggeggi che fondano, con i loro a capo, una poesia. Se poi questo libro, di rare e vanitose cinquecento copie, è pubblicato da un editore come Franco Maria Ricci, la situazione si complica ulteriormente, o per meglio dire, si complica per via del fascino e dell’eleganza che ispirano il volume. A cominciare dalla copertina, di un chiaro blu carta da zucchero, dalle pagine interne prive di numerazione ma insignite del carattere tipografico più nobile. E si sa che la bellezza è sempre una complicazione. Chi si crede di essere questo libro? E a chi si accompagna? Sarà bene precisare che appartiene a una nuova collana, Il Labirinto scritto, il cui primo volume è un Giovanni Mariotti di grande annata, La carpa del sogno, dove si parla del monaco Kōgi “pittore di pesci e anche pesce”. Manufatto popolare, come si vede. Collezione che tiene ai quattrini dei formidabili acquirenti, visto che le sue uscite sono fortemente irregolari, e le cadenze imprevedibili.
Cosa è Il colore del verde adesso può essere abbastanza facilmente decrittato: centoundici brevi poesie composte da Anna Maria Dadomo, mansioni di bibliotecaria a Fontanellato (paese che s’immerge nel mito come un uomo nella sua dama), e abitante giardini e serre e orti vari. Alle poesie fanno scorta un preambolo dell’amico editore, e un epilogo della poetessa con scampoli di missive giunte negli anni. Vengono fuori parole importanti come “mistiche”, “Saffo”, “secolo”, “gatti”, “Vermeer”, e appunto “verde”. Certamente il bagno di Diana sorpresa dal bricconcello Atteone, dipinto dal Parmigianino, sempre sotto gli occhi della poetessa nelle sale del Castello, ha avuto i suoi effetti, nutrendo abbondantemente i suoi versi di slanci, brividi, e soprattutto di una variegata flora spontanea e coltivata. Viole accompagnate da ragni, polveri luminescenti e altrettanti esseri vegetali s’incrociano al pensiero di Anna Dadomo, sempre diretto e continuo, sempre sull’orlo di qualche riluttanza e volontà di spazientirsi per una visione non del tutto consona ai propri desideri. La stessa natura talvolta è troppo colorata, o troppo impolverata, spesso porta ombre che non si vorrebbero. Quasimodo con i suoi lirici greci non sono molto distanti, così come alcuni poeti italiani del Novecento e certi loro epigoni tardivi. Epigono lei di certo non è, se mai una nitida autrice classica colta in flagrante. Improvvisa scoperta per chi scrive e forse per una manciata di sconsiderati cultori della materia poetica. Bella fortuna quella di non conoscere tutto, anzi di essere in altissimo mare quando si tratta di letteratura che induce benessere. Perché sarà pure da collezionisti di battute affermare che “la poesia è salute”, così come scriveva nel secolo scorso quel buontempone di Wallace Stevens (e con più variegati significati), ma leggere questa poesia origina condizioni assolutamente vitali. Le parole dunque possono sì creare terreni e poltrone soffici, e invitarci a calde familiarità, a patto che siano depositate da persone capaci di scavalcare gli agguati degli intellettuali e dei “sensibili” produttori di versi inutili.
Spiegarsi meglio diventerebbe dispettoso e agiografico, lasciamo che Il colore del verde prenda il sopravvento e si disponga con benevolenza a conversare.