Chi ha paura di Katherine Mansfield e Virginia Woolf?

Sara De Simone ricostruisce in "Nessuna come lei" l'amicizia tra Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Indagando il rapporto intellettuale e affettivo che le lega per qualche anno, scopriamo, sullo sfondo della malattia di Mansfield, la conversazione tra due scrittrici che non potevano presentarsi come più diverse anche per la cultura e la società inglese del loro tempo.

Siamo tra il 1917 e il 1923, anno della morte di Katherine Mansfield. Nessuna come lei di Sara De Simone (Neri Pozza, pp. 428, euro 22,00 stampa, euro 9,99 epub) ricostruisce la storia dell’amicizia tra KM (la sigla con la quale si firmava la scrittrice neozelandese) e Virginia Woolf, allora trentacinquenne e che di lì a poco avrebbe scritto i suoi romanzi più celebri. Una vista ravvicinata di due donne eccezionali restituita dalle scritture private, incrociate quasi giorno per giorno, con tutta la lievità, e talvolta la pesantezza fredda, del quotidiano. Si conservano molte lettere di KM a VW, al contrario le lettere di VW a KM sono soltanto due, perché Mansfield aveva la tendenza periodica a bruciare ed eliminare la corrispondenza. Ma entrambe, nei diari e nelle lettere che scrivevano ad altri, parlavano una dell’altra. Sara De Simone ha fatto un lavoro dettagliato alla ricerca di questi commenti, molti dei quali sono riportati nel testo, tradotti direttamente dall’autrice. Nessuna come lei non è un saggio (troppo coinvolgente ed empatico), non è un romanzo (nessuna concessione alla finzione): è un testo di rara bellezza e dedizione che ricompone la forma, la densa tonalità e il ritmo delle giornate, dei pensieri e della biografia di una relazione d’eccezione.

De Simone, nota come traduttrice (ad esempio, delle lettere di Vita Sackville-West nel bellissimo carteggio con la Woolf edito da Donzelli: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e di desiderio, a cura di E. Munafò, 2019; le lettere di Virginia sono state tradotte da Nadia Fusini) e vice-presidente della “Italian Virginia Woolf Society”, ha raccontato, in una recente presentazione al Salone del Libro di Torino, di aver avuto l’idea a partire da un’osservazione che VW scrisse a Vita, anni dopo, nel 1927, ricordando KM: “Che strane amiche che ho avuto, tu e lei”. Katherine e Vita sono due donne molto diverse che in comune hanno, rispetto a Virginia, una maggiore confidenza con il proprio corpo e con il desiderio e una minore resistenza a lasciarsi andare, a sperimentare, a non temere le ripercussioni emotive della fisicità delle relazioni. Da entrambe Virginia è inizialmente turbata, si tiene a distanza e le canzona; ma ne è molto incuriosita, alla fine si avvicina e terrà stretta quell’amicizia strana, rincorrendole anche quando loro sembrano sfuggire. Ama quella naturalezza, quell’agio nel corpo e riconosce, in particolare in KM, la sua stessa dedizione alla letteratura.

Gli anni della loro frequentazione sono cruciali non solo per la storia politica d’Europa ma anche perché è il periodo in cui nell’arte cambia il modo di raccontare e vedere la realtà. KM e VW sono tra le principali protagoniste della nascita del romanzo sperimentale moderno e, come molti letterati di allora, si nutrono delle scoperte nel campo dell’arte figurativa. Tutte e due videro a Londra, nel 1910, la mostra sui post-impressionisti curata da Roger Fry, l’esperto d’arte del circolo Bloomsbury; Virginia rimase colpita, in particolare, dalle mele di Cezanne, Katherine dai girasoli di Van Gogh: oggetti ritratti nella loro essenza reale, non messi lì in posa o su una tappezzeria di sfondo. Da quello che vedono dipenderà molto della loro letteratura rivoluzionaria. KM, più giovane di qualche anno ma più rapida e acuta nella ricerca di una letteratura “tutta per sé”, si accorge subito che bisogna trovare “nuove espressioni e nuove forme per i nostri pensieri e sentimenti” – scriverà al marito – e rimprovera a VW di aver scritto un libro, Notte e giorno (pubblicato nel 1919) che di fatto sembra ignorare lo sconvolgimento determinato dalla Prima Guerra Mondiale. Serve un nuovo stile di scrittura, una “special prose” la chiama; una narrativa dove la trama e il finto realismo del racconto e del romanzo tradizionali non contano più.

Si conoscono nel 1917, che è anche l’anno di nascita della Hogarth Press, la piccola casa editrice dei coniugi Woolf, Virginia e Leonard; l’incontro sarà proprio mediato dalla richiesta dei “Lupi” a KM di pubblicare con loro Preludio, uno dei racconti più famosi di KM.

Erano due donne molto diverse, anche fisicamente. KM, nata in Nuova Zelanda e arrivata per la prima volta a Londra nel 1902, aveva un viso dai tratti delicati incorniciato da una frangetta perfetta, indossava abiti à la parisienne, scialli orientali ed era abile nella mimica, nel canto, nella recitazione.

Una – scrive Sara De Simone –  veniva dalle colonie dell’emisfero australe, l’altra era cresciuta nel cuore dell’alta borghesia inglese; una indossava calze colorate, stoffe orientali  e profumi inebrianti, l’altra era sobria, naturalmente elegante, e odiava comprare vestiti; una per mantenersi aveva fatto la musicista, la cabarettista, la comparsa al cinema, l’altra era cresciuta negli agi di una rispettabile, solenne, casa vittoriana; una aveva amato uomini e donne, si era sposata e aveva piantato il marito la sera stessa, aveva avuto due aborti e ora conviveva con un uomo fuori dal matrimonio, l’altra aveva passato gran parte della giovinezza tra le pareti domestiche, si era sposata riluttante, aveva trovato nel marito un amico leale e un compagno di vita, ma di certo non un amante, e l’eros l’avrebbe scoperto più avanti, dopo i quarant’anni. Due esistenze molto diverse, non c’è che dire, che pure s’incontravano in un punto: quello della loro vocazione.

Una “strana coppia”, dunque, guardata con stupore anche dagli amici di VW che dopo un iniziale interesse per KM la tengono lontana, passando dalla fascinazione alla maldicenza: è troppo particolare e in apparenza troppo sicura di sé, ha un comportamento equivoco che non capisci se recita o se è sincera; fa un uso sottile delle maschere, usando il proprio aspetto in modo intenzionalmente performativo. In comune, KM e VW hanno un amore smodato per la scrittura. Spesso leggono in contemporanea e recensiscono gli stessi libri. Entrambe hanno perso un fratello molto amato: Leslie, il fratello di KM, è morto nel 1915 per lo scoppio di una granata durante un’esercitazione, mentre Tobey, uno dei fratelli di Virginia, muore di febbre tifoide nel 1906. Hanno, inevitabilmente, l’abitudine forzata a una certa solitudine ed estraneità alla vita. KM nel diario si descrive come una straniera, un’aliena, “la piccola coloniale che se ne va a spasso per i giardini di Londra”; VW prova delle sensazioni simili pur essendo, per nascita e geografia, perfettamente integrata nel proprio ambiente.

I due mariti, Leonard Woolf e John Middleton Murry, anch’essi scrittori e critici letterari, sono invece molto diversi: tanto affidabile il primo tanto quanto il secondo è farfallone e palesemente inadeguato alla moglie e poi alla malattia di lei. Due figure che hanno, in modo differenti, un ruolo importante nella vita delle due donne, ma che in certe sezioni della loro esistenza diventano marginali, come una sagoma che prendi e metti da parte.

KM e VW fanno i conti, continuamente, con la malattia: KM sin da giovanissima soffre di forti reumatismi mentre VW subisce periodici crolli nervosi che la costringono a un forzato immobilismo e a grandi bicchieri di latte senza che possa scrivere, leggere, passeggiare. Entrambe, infine, sono accumunate da una morte tragica, che spesso ha prevalso su tutto il resto nella valutazione complessiva della loro vita e opera.

Nel novembre del 1917 a KM viene diagnosticata la tubercolosi. Nel febbraio dell’anno successivo, una mattina che si era alzata e aveva spalancato la finestra salutando il sole con un verso di Shakespeare, “ecco l’allodola gentile stanca di riposare”, quando si ributta a letto le esplode in bocca il primo sbocco di sangue, ed è da questo momento in avanti che interiorizza di avere una malattia per la quale non esistono cure risolutive. In una lettera dell’agosto 1919 scrive a VW che vorrebbe essere un coccodrillo, perché pare che il coccodrillo sia l’unico animale che non tossisce mai. Tra il 1917 e il 1923 viaggia continuamente tra Francia (Bandol, Mentone, Parigi), Italia (Ospedaletti), Svizzera alla disperata ricerca di climi più caldi, di medici e di cure. Continua a farlo anche dopo che le barriere tra lei e la morte sono cadute e sa che il suo corpo si è rotto. Sono anni in cui scrive moltissimo e sogna di dare pubblica lettura dei suoi testi come aveva fatto Charles Dickens. Gli incontri con Virginia sono intervallati da lunghi periodi di assenza. VW soffre la mancanza di un messaggio, di una lettera, forse non comprende davvero a fondo l’entità della malattia e della sofferenza fisica di Katherine, attribuisce le sue assenze prolungate a una carenza di affetto e di interesse; nel diario del 18 febbraio 1919 dispera di non vederla mai più, pur ripensando alla ricchezza dei loro incontri, e poi scrive: “La verità, immagino, è che una delle condizioni inespresse, ma implicitamente concordate della nostra amicizia, è stata proprio quella di essere fondata interamene sulle sabbie mobili”. È consapevole di una relazione che seppure “frammentaria” e intermittente”, senza garanzie né la certezza della reiterazione, è tanto preziosa.

Nel frattempo, succede anche tutto il resto: VW cerca nervosamente delle fodere per i suoi cuscini; i “Lupi” rifiutano di pubblicare l’Ulisse di Joyce, perché sarebbe stato un lavoro eterno con la pressa manuale a disposizione (per le 68 pagine di Preludio avevano lavorato 9 mesi), poi comprano Monk’s House, una casa di campagna nel Sussex dove Virginia scriverà alcune delle sue pagine più famose; entrambe declinano l’invito ad andare, il 29 luglio 1919, a Bloomsbury, al party mondano al quale erano state invitate varie star tra cui i pittori Picasso e André Derain.

Nessuna come lei frantuma tanti stereotipi ricorrenti nel racconto della vita di queste due donne e scrittrici. Il primo è quello della rivalità femminile, un topos dello sguardo maschile: per lungo tempo si è ripetuto che KM e VW erano ciascuna invidiosa del lavoro dell’altra, non ammettendo – come si ammette tra gli uomini – che tra due donne ci può essere rivalità (una componente certamente presente nella loro relazione) e nello stesso tempo stima e amicizia sincera. Poi c’è lo stereotipo della donna e dell’artista fragile, definita dalla malattia e dalla morte prematura: così KM è una “farfalla dalle ali esili”, nella breve biografia da non rileggere di Pietro Citati (una biografia più interessante è quella di Nadia Fusini, La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield, Mondadori 2012, ripubblicata quest’anno da Feltrinelli nel centenario della morte; racconta la vita di KM anche un podcast in 4 puntate disponibile su Rai Play Sound: Voglio essere vera. Vita e destino di Katherine Mansfield con Nadia Fusini e Sara de Simone).

VW, d’altro canto, è una donna cupa e depressa, come indicherebbe la morte per suicidio. Per entrambe, la fine tragica è stato lo strumento per incastrarle nello stereotipo della donna spezzata e in qualche modo troppo debole, che sbaglia; la “trainwreck”, quella che deraglia dai binari, su cui ha scritto Jude Ellison Sady Doyle, (Spezzate. Perché ci piace quando le donne che sbagliano, edizioni Tlon 2022); quando in realtà basterebbe leggere pochi brani delle scritture private di entrambe per capire come la depressione e la sofferenza dovuta alla stasi forzata informino soltanto di una parte di due donne dalla personalità estremamente complessa, dove la leggerezza, l’ironia, la curiosità, l’ardore per la vita sono tanto luminosi e prevalenti.

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Un ultimo e coriaceo stereotipo che ha colpito la considerazione postuma di KM è quello della donna plagiata, una figura alla quale si fa ricorso molto spesso quando non si vuole ammettere che una donna in piena consapevolezza abbia fatto una scelta fuori dagli schemi. Katherine trascorre gli ultimi mesi della sua vita, da metà ottobre del 1922, poco dopo aver compiuto trentaquattro anni, a gennaio del 1923, nell’Istituto per lo “Sviluppo Armonico dell’Uomo” fondato a Fontaneibleau, a pochi chilometri da Parigi, dal teosofo russo (per molti un ciarlatano) Georges Ivanovič Gurdjieff. Affascinata dall’idea di unire mente e corpo e decisa nel voler affrontare le implicazioni psichiche della sua malattia, dopo aver provato tutte le possibilità che la medicina ufficiale offriva e ormai nella fase terminale della malattia, KM cambia completamente direzione e tenta una nuova avventura, come aveva fatto molte altre volte nella sua vita. “Se non può guarire, si inventa di poter arrivare a un controllo psichico tale, che le permetta di ignorare le condizioni fisiche”, ha scritto Nadia Fusini. Nella comunità di Gurdjieff, KM smette di leggere e scrivere, pela le patate e le rape, si alza presto, si lava con l’acqua fredda, inala l’odore del letame, osserva i pulcini le galline i maiali, vive scomodamente, patisce il freddo e le privazioni. Sceglie di interrompere la costruzione e la vestizione della sua identità e forse sceglie come e dove morire. È affascinata dalle danze sacre di Gurdjieff e una sera, dopo aver assistito a una di queste, tornando in camera, un fiotto di sangue le sale alla gola e muore: nel luogo dove aveva liberamente, forse discutibilmente ma con coraggio, scelto di stare.

L’ultimo incontro tra KM e VW avviene il 23 agosto 1920. A dicembre KM le scriverà da Mentone: “Se Virginia entrasse dal cancello e dicesse Bene, Katherine… – oh, ci sono milioni di cose di cui vorrei discutere con te. / Mi chiedo se sai cosa hanno significato le tue visite per me, e quanto mi mancano. Sei l’unica donna con cui io desideri parlare di lavoro. Non ce ne sarà mai un’altra.” Poche lettere ancora e poi KM sparisce. Con rimpianto, dopo la sua morte, VW ripenserà al fatto che avrebbe potuto andare a trovarla a Parigi e scriverà “Ho la sensazione che penserò a lei, a intervalli, per tutta la vita”.

Nel periodo in cui conosce KM, VW cambia modo di scrivere. La stanza di Jacob, un romanzo sperimentale pubblicato nel 1922, ha come protagonista un giovane che muore in guerra e una scrittura dove quello che conta è il ritmo e non la storia; un romanzo contro il realismo, contro quel “mattone della coscienza”. Quando KM muore, VW sta scrivendo La signora Dalloway. Le sopravviverà per quasi venti anni e nel 1927 scriverà a Vita-Sackville-West, ricordando Katherine, “Che strane amiche che ho avuto, tu e lei”.

Nel 1926 scrive la prima versione del saggio Sulla malattia (l’edizione italiana più recente è edita da Bollati Boringhieri, 2006). Non cita KM ma forse ci avrà pensato, quando parla della malattia come spazio inesplorato nella letteratura: chi scrive si è sempre occupato molto di più della mente che del corpo, eppure una circostanza banale come essere a letto con l’influenza costituisce una esperienza grandiosa di alterità del mondo, dell’incapacità di lavorare e di un mutato paesaggio della vita. Nella “franchezza infantile della malattia” si dicono cose e verità che in salute si tengono nascoste, si evita di avere compassione dell’altro, non ci si inganna di essere sempre compresi e accompagnati; nella malattia c’è un’incoscienza da fuorilegge che permette di leggere Shakespeare senza reverenza, senza ossequio e timore: “la malattia, nella sua regale sublimità, spazza via tutto questo e lascia soltanto Shakespeare e noi stessi”. KM aveva scritto nel diario, nel novembre 1918, “La malattia distrugge la privacy e impedisce di scrivere”; eppure ha scritto tantissimo, in condizioni psico-fisiche molto difficili. Anche la malattia è spesso stereotipata; KM e VW dimostrano che si può parlare di malattia e con la malattia senza esserne travolti e determinati. La malattia comporta solitudine, estraneità, separatezza ma è riscaldata dall’esclusività e dal mistero dell’amicizia. In una pagina del diario del 1918, durante le settimane nelle quali faceva visite frequenti a KM percorrendo un tragitto di un’ora sino alla casa dell’amica, VW scrisse “Che strano destino è quello di essere sempre spettatrice del pubblico, e mai parte di esso”, e poi “Questo è uno dei motivi per cui vado a Hampstead ogni settimana, a trovare KM, perché almeno, insieme, facciamo un pubblico in due”.  Il pubblico di due di una vita tanto amata e raccontata come da nessuno prima di loro.