Chantal Akerman / Memoir sull’esistere

Chantal Akerman, Mia madre ride, tr. Giorgia Tolfo, La Tartaruga, pp. 208, euro 20,00 stampa, euro 10,99 epub

La rivista cinematografica britannica Sight and Sound ogni dieci anni, dal 1952, organizza un sondaggio tra critici cinematografici per eleggere il miglior film di tutti i tempi e quest’anno la scelta è caduta su un film d’avanguardia del 1975, a molti sconosciuto: Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles, della regista belga Chantal Akerman: la storia di una vedova, casalinga, che di tanto in tanto si prostituisce per mantenere se stessa e il figlio. Il film, che Akerman girò a 25 anni, dura quasi 3 ore e mezza; non è basato su una storia o su colpi di scena: racconta la monotonia, la solitudine e l’alienazione della vita della protagonista. Le lunghe riprese fisse su azioni ripetute come pelare le patate o infarinare le bistecche, l’indugiare sulle azioni e sugli oggetti mostrano quanto possa essere agghiacciante ciò che generalmente ci appare soltanto noioso.

Akerman è stata una regista di culto belga, icona del femminismo degli anni Settanta; autrice di oltre sessanta film per cinema e televisione e di video installazioni dal 1968 (era nata nel 1950 a Bruxelles) al 2015, anno della morte per suicidio, mentre stava presentando il suo ultimo lavoro, No Home Movie, un film documentario sulla madre Natalia e sul rapporto con il tempo.

Mia madre ride, un diario-memoir che la regista ha pubblicato nel 2013, prima della morte della madre, è a oggi l’unico testo scritto della Akerman tradotto in italiano. Un lungo racconto sugli ultimi anni della madre malata e, soprattutto, sulla sofferta presa di coscienza, da parte della figlia, della prossimità della morte del genitore. Come nei suoi film, manca una struttura narrativa: non siamo avvinti da una trama che si fa smemorare, al contrario ci accorgiamo che stiamo leggendo e che il tempo passa; ci accorgiamo dei silenzi, del vuoto, dell’immobilità, del niente tra un pensiero e l’altro. Lo sguardo sul quotidiano, come figlia e donna, ha una delicatezza dura e affranta, senza difese. La regista ha convissuto per molti anni con la depressione e con continue terapie farmacologiche: una “malattia dell’umore”, che curiosamente per lungo tempo, racconta, ha collegato con le storie dei sopravvissuti. I genitori erano ebrei polacchi scampati ad Auschwitz, che però avevano scelto di non parlare mai del passato, di quello che era accaduto. Chantal sin da bambina si è confrontata con il silenzio, le parti mancanti, i parenti assenti e ha iniziato a pensare che se avesse smesso di riflettere su chi era sopravvissuto e chi no, forse sarebbe riuscita a controllare la sua malattia. Poi ha capito che il collegamento era fittizio, che la malattia dipendeva da altro, forse dall’infanzia e dal legame molto forte con la madre. La depressione è uno strappo nel corpo che non può essere riparato, è il tessuto stesso ad essere fregato; una malattia che la fa sentire impigliata in una rete da pesca che si stringe sempre di più, col rischio che lei un giorno si chieda dov’è la rete e che la rete le manchi.

Il suo sguardo autobiografico è consapevolmente limitato e inventato: “non sono capace di altro. Della verità, e nemmeno della mia versione della verità”. In quella torsione verso l’interiorità si sente una figlia inadeguata, con i capelli spettinati, i vestiti fuori taglia trascurati e non stirati; inadeguata di fronte a una madre che ha accettato l’ordinarietà della vita e dello stare al mondo e che a 85 anni parla e ride con tutti, vive con vivace egoismo la fragilità del suo cuore, non si imbarazza a stare nuda di fronte a lei – la figlia, invece sì, si imbarazza un po’ a lavarla –, crede ancora nel progresso, nella possibilità fisica di migliorare, accetta i complimenti, va d’accordo con la badante e con la donna delle pulizie. Una madre con un incredibile desiderio di vivere che Akerman, pur così diversa, cerca di assecondare: “A volte non contano le parole che dice. Quel che conta è la risposta a quel che non è stato espresso. Allora le dico quel che vuole sentirsi dire”.

La prosa è semplice, a volte come quella di un bambino che sta imparando a scrivere, fin dall’incipit “Ho scritto tutto e ora non mi piace più quello che ho scritto”. Non a caso, più avanti dice: “La bambina era nata già vecchia e all’improvviso, e poi non è mai diventata grande. È cresciuta nel mondo degli adulti come una vecchia bambina e a fatica. La bambina vecchia si ripeteva che se sua madre se ne fosse andata non avrebbe più avuto un posto dove tornare. // Da adolescente ne aveva fatte di ogni, durante l’età adulta se l’era più o meno cavata, sapendo però di avere un posto in cui tornare. // Dopo la morte del padre, quel posto era la madre. // Non appena la bambina ci arrivava, ogni volta estenuata dalla vita da adulta che non riusciva a vivere, si buttava sul divano e dormiva qualche ora. Poi, un po’ meno estenuata, mangiava. // Quella bambina è lei, sono io. E ora sono vecchia, ho quasi sessant’anni. O forse di più. E sono ancora bloccata qua. Non ho figli. Una bambina vecchia non fa figli. Che cosa mi terrà legata alla vita dopo la sua morte?”.

Una bambina vecchia non fa figli e non si sposa, ha il terrore di sposare un vecchio e di finire a lavargli le calze, di averlo accanto nel letto per un po’ e poi di ritrovarsi vedova. Non sopporta la sporcizia e l’odore che restano dopo che qualcuno se n’è andato. Eppure, a volte non ci facciamo caso: quando i fiori appassiscono, dimenticati, in un vaso pieno d’acqua, dopo un po’ prendiamo il vaso e buttiamo via l’acqua, senza rimpianti, senza interrogarci sulle ragioni e l’origine di quell’odore. Un’azione come tante altre, istintiva, meccanica. Akerman ha raccontato visivamente, in più opere, come il quotidiano si snodi in bilico tra una consequenzialità chiara e comprensibile sorretta da significato, funzione, necessità e un surreale asciutto e straniante, che graffia, fino a farla scomparire, l’anima. La sua prima opera è stata un corto di 16 minuti (Saute ma ville, 1968) di cui era regista e interprete, ambientato in una piccola cucina: una giovane donna, canticchiando, rientra in casa e si dedica ad attività ordinarie (cucina, mangia, pulisce la stanza) e nel contempo ne compie altre insensate e incoerenti, fino a che apre il gas, appoggia una guancia sul piano cottura e si fa esplodere insieme all’appartamento.

Ma nei giorni concentrati tutti sulla degenza della madre, anche la scrittura non è una liberazione. Akerman fatica ad abituarsi all’idea che la madre presto non ci sarà più: “non ci sono che due opzioni, la vita o niente. // E se la vita se ne va, così anche lei.” Dorme tantissimo, si rilassa camminando veloce per andare a prendere le sigarette, erra tra Parigi, New York, Bruxelles senza mai sentirsi a casa. Vive una relazione complicata con C., una donna più giovane conosciuta via social, email, sms e poi incontrata un giorno a Londra. Il sorriso di C. presto si è trasformato in uno sguardo serio e cupo, in un rapporto ossessivo, geloso, paranoico. Quando è con lei Akerman non riesce a scrivere ma non può neanche chiamare le amiche, perché C. è riuscita a convincerla che se telefona a qualcuno conosciuto prima di lei allora è nel torto. C. non sopporta gli altri suoi legami e la vita vissuta prima di incontrarla; sino a diventare aggressiva e manesca, a farle un occhio nero, a spingerle il bordo del tavolo contro lo stomaco. Dopo le prime parole d’amore, la loro storia è consistita nella distruzione di quell’amore, sino all’inevitabile rottura; eppure, quel sentimento all’inizio così intenso le ha fatto smettere, per un poco, di vedere la madre morire.

È fin troppo facile scrivere che preparandosi alla morte della madre, provando a immaginarsi senza di lei, Akerman si sia preparata anche alla sua. Scriveva: “Sono sopravvissuta a tutto fino a oggi, eppure ho desiderato spesso di suicidarmi. Ma mi dicevo non posso fare una cosa del genere a mia madre. In futuro, quando non ci sarà”. Meglio, forse, non fare caso alla lucidità. Fingere di non notare il legame; che l’azione sia stata spontanea, svolta e accettata senza rimpianti. Come quando si butta l’acqua del vaso insieme ai fiori appassiti, senza interrogarsi più di tanto sull’origine dell’odore. Una lunga ripresa fissa sul tavolo, quando è già vuoto.