Ceruti, Bellusci / Dall’abbandono delle dicotomie alla nascita di un paradigma globale

Mauro Ceruti, Francesco Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Raffaello Cortina Editore, pp. 144, euro 14,00 stampa

Se sin da bambini siamo stati indottrinati per opposti (buono/cattivo, vincitore/perdente, uomo/macchina) in questo saggio snello e divulgativo Ceruti e Bellusci cercano di spiegare, dati e fatti storici alla mano, come una visione di questo tipo sia anacronistica. Il volume va a trovare collocazione in una serie di pubblicazioni sul ripensare il nostro approccio al mondo e la riscoperta dei saperi antichi (i filosofi sapienziali) che ha caratterizzato le uscite di molte case editrici grandi negli ultimi mesi (penso a Tonelli per Feltrinelli, ma anche Bertolaso e Marcos per Carocci).

Attraverso un excursus lungo la storia del pensiero gli autori spiegano, quasi in maniera scolastica e assertiva, come oggi il mondo può apparire “contemporaneamente in evoluzione, in rivoluzione, in regresso, in crisi, in pericolo”. Una matassa di interazioni inter- e intra-dipendenti nelle quali siamo immersi e partecipi, un atto di vita e di appartenenza a un sistema più grande, complesso. Un sistema che non ha più dimensione locale ma che è diventato globale nel quale ognuno è contemporaneamente trama e ordito. Tutte le scelte, da quelle personali al consumo di massa, da quelle scolastiche a quelle statali hanno ricadute e ripercussioni che incidono sulla vita non solo degli esseri umani ma anche del pianeta, dell’economia e dello sviluppo tecnologico. Se nel tempo siamo stati portati a immaginare scenari dispotici di un futuro comandato dalle macchine, forse è necessario chiedersi quale evoluzione c’è dietro, sia intellettuale che umana: è interessante ricordarsi che come Homo Sapiens abbiamo dovuto imparare svariate volte cosa voglia dire essere umani, ridefinirsi e definire a nostra volta la realtà. E quindi potremmo legare questa evoluzione al porsi domande e sfide nuove, all’affrontare “la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dèi” (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Laterza). Pertanto, poiché “l’essere umano è propriamente un divenire umano”, occorre un nuovo paradigma basato su una responsabilità condivisa e planetaria, considerando che le macchine sono concepite per gli uomini e che occorre formare uomini e donne a un umanesimo planetario che valorizzerà la scienza con coscienza, di contro alla figura dell’homo semplificato, colui “che accetta senza riflettere il ‘fascino’ delle tecnologie”, riducendo con aggressività tutto a dicotomie e separazioni.

L’umanesimo planetario è consapevolezza di appartenere a un fluire, una danza nella quale l’uomo è scheggia del tutto, uno dei tanti fili del gomitolo. L’uomo planetario non si pone al di sopra della natura, né come essere superiore, bensì si fa interlocutore delle leggi fisiche e del sentire etico, riconoscendo la nostra comune matrice terrestre e la nostra non onniscienza, ovvero la “conoscenza ignorante” che ci permette di entrare nel tessuto dell’influenza reciproca. Non si tratta quindi di mera teoria, quanto di un movimento concreto che risponde all’esigenza attuale di affrontare e risolvere problemi ormai diventati emergenze (da quella alimentare a quella ambientale).

Al bivio tra metamorfosi umanistica o metamorfosi transumanistica (aumentando le capacità fisiche e cognitive utilizzando tecnologie), gli autori propongono una evoluzione verso una Cosmopolis quanto mai necessaria e ormai passata da mero concetto utopistico a realtà tangibile, quasi il responso fosse “Sono Gaia – fu la risposta” (I. Asimov, Fondazione. La quadrilogia completa, Mondadori).