Wozu Dichter in dürftiger Zeit? Da quando è stata pronunciata, la domanda di Hölderlin non smette di risuonare in chi si avvicini alla poesia come autore, come fruitore, come critico. Perché i poeti, in tempo di privazione, o di povertà, o di bisogno, si chiede l’autore tedesco in Brot und Wein: ma è sempre tempo di privazione, di povertà, di bisogno, e i poeti ci sono sempre, anche dopo Auschwitz, anche dopo che le cetre sono state appese alle fronde dei salici, e quella di Noteboom è l’ennesima declinazione della domanda e l’ennesima risposta possibile.
Noteboom, ottantasette anni compiuti il 31 luglio del devastante 2020, molte delle sue ultime opere che ruotano intorno a congedi (Tumbas, 2007, con i cimiteri che si trasformano in Campi Elisi terreni dove s’intrecciano fitte, consolanti relazioni con i grandi scrittori della storia), a metafisiche funerarie (Lettere a Poseidon, 2012, in cui al dio del mare, inseguito in ogni luogo in cui si manifesti il potere del suo tridente, si sovrappone l’ombra ctonia di suo fratello, Ade), e una dedizione alla poesia che i successi come narratore non hanno mai cancellato. Esce ora questa nuova, breve silloge, tradotta magistralmente da Fulvio Ferrari e presentata da Iperborea con il testo originale a fronte, che evoca il mondo in cui viviamo e che ci è cambiato repentinamente sotto gli occhi e gli gira intorno, ne distilla frammenti di esperienza e di visione e li restituisce nella forma levigata, polita, di versi che si compongono in un insieme dalla struttura autocompiuta, atta a resistere alle intemperie e alla corruzione della volgarità e del male come un parnassiano monumento alla bellezza.
Una simmetria perfetta: tre capitoli senza titolo, ciascuno dei quali contiene undici poesie anch’esse senza titolo, e ognuna di esse formata da tre quartine e da un verso finale. Poesie che raccontano un viaggio, come accade spesso negli scritti di Noteboom: il viaggio in questo caso non è ripercorso nei suoi dettagli, ma ne emergono frammenti, particolari isolati, che acquistano all’improvviso con forza plastica il rilievo dell’assoluto. Perché questo, appunto, è il viaggio dell’addio: di un io che si trova alla fine dei suoi giorni e tuttavia non muove verso il passato, ma verso l’incertezza dell’ora e del dopo, e in ciò diventa epitome di un’umanità sconvolta nelle sue certezze, smarrita di fronte all’ignoto. Tutto si sviluppa a partire dalla domanda posta nei primi due versi del primo componimento (“Questo si chiedeva l’uomo nel giardino d’inverno, / la fine della fine, cosa poteva essere?”) e procede attraverso ciò che statuiscono le parole con le quali si chiude la stessa poesia: “nessuno / sarà più se stesso, nessuna apparizione, / la ritirata dopo la sconfitta // ma senza una meta”.
Il coronavirus è formato da tre glicoproteine unite a comporre un trimero: e allora le tre quartine di cui sono composte le liriche di Noteboom ne sono una replica, e il verso finale staccato, breve e mozzo, con cui ogni componimento si conclude, indica e simboleggia una via d’uscita, una rottura dell’incantesimo maligno. Certo, nella tripartizione su cui la raccolta è costruita, nella dialettica tra il qui e l’oltre giocata nella dimensione del viaggio, appaiono in controluce anche altri modelli, non clinici, ma letterari: Dante, Hölderlin indirettamente richiamato da Empedocle, che Noteboom, in una breve nota di commento ai testi, dichiara essere stata fonte di ispirazione e che ritorna come citazione esplicita (“tante guance cresciute / senza collo, braccia nude, private // delle spalle, vagano qua e là, occhi / solitari privi di fronte errano intorno, membra / staccate, forme spettrali, fantasmi / intessuti di malvagi racconti”). Soprattutto Rilke, i Sonetti a Orfeo che risuonano, oltre che nella struttura formale (la mancanza di titolazione, sostituita dalla progressione numerica), nelle frequenti e tambureggianti sequenze di domande e risposte, nei lutti, negli inferi e negli addii, ma anche nella gioia della danza e del canto: “Cosa volevo dire con quei versi petrosi, / in rime che cozzavano con le loro simili, / la metrica dell’oblio, il breve trionfo/ della musica? Chi danzerebbe // a questo ritmo? Figure chiuse nate da una / profezia, una verità in forma d’arte”.
Siamo tornati a Hölderlin (ricordiamo che Martin Heidegger commentava il suo “Wozu Dichter?” sull’esempio di Rilke), e dunque: perché poesia al tempo del virus? Perché la poesia è la risposta alla domanda che riguarda la sua stessa esistenza. Quando si manifesta la morte e si fa perspicua, ce n’è più che mai bisogno: c’è bisogno della sua illusione di sopravvivenza, di posterità, magari di immortalità.