Intersecare il livello della riflessione sulla scrittura con quello del racconto vero e proprio è impresa che riesce solo ai grandi scrittori. Tale è il caso di Cees Nooteboom nel Canto dell’essere e dell’apparire, un libro che, con perizia alchemica, parla del mestiere dello scrivere mentre tesse una enigmatica tela narrativa. Un classico di un autore parsimonioso e sfuggente a qualsiasi classificazione, riproposto ora in una nuova edizione. Protagonisti due scrittori: uno sicuro di sé e organizzato, produttivo in maniera sistematica e regolare, costantemente presente nelle giurie dei premi letterari, l’altro tormentato e roso dal tarlo del dubbio, reduce da un lungo periodo di inattività.
Due i personaggi del romanzo, ambientato nella Bulgaria dell’Ottocento: il colonnello Ljuben Georgiev, ossessionato dalla dimenticata grandezza bulgara, la mente infestata da incubi terribili legati ai traumi della guerra, e il dottor Fičev, refrattario agli orrori del conflitto, in grado di operare in ogni condizione con la freddezza di un automa. Il via vai dei confini intrisi di sangue, costante della nostra storia, si palesa di fronte a noi in tutta la sua crudezza. Il dolore dovrebbe essere visibile, pensa il colonnello, dovrebbe avere una sua concretezza tangibile. La comparsa di Laura, figura femminile che non assomiglia in alcun modo alle altre donne, turba equilibri consolidati con la sua corporeità evanescente, con la sua inclinazione verso la follia.
Come nell’Invenzione di Morel di Casares, la donna oggetto di desiderio ha un’esistenza fantasmatica, priva di consistenza materiale. Un gioco di specchi nella tradizione narrativa di Borges, che conduce i personaggi del racconto e i due scrittori impegnati in una continua tenzone dialettica attraverso una Roma costellata di rovine, voluttuosamente decadente e intessuta di sostanza onirica. Uno scenario fluido che, come un palcoscenico teatrale, ospita figure altrettanto effimere, destinate a svanire nella foschia vespertina.
Nooteboom, con suprema maestria, si muove al limitare dell’essere, ci conduce per mano in trame narrative che, forzatamente, non hanno conclusione, ci abbandona in labirinti senza via d’uscita. Il romanzo, con il suo intreccio di realtà e chimere, inibisce la possibilità stessa di giungere a una conclusione. Per un raro, irripetibile istante, lo scrittore crede di vedere i personaggi partoriti dalla sua fantasia muoversi in quell’unico punto del tempo e dello spazio propizio a un appuntamento impossibile, o diviene egli stesso parte della trama che sta costruendo. L’atto dello scrivere non è dunque il semplice raccontare una storia, ma un processo misterioso in grado di muovere i meccanismi che regolano l’universo. L’enigma del tempo si palesa per un istante, per poi scomparire di nuovo nelle sue coltri oscure.