Arriva il momento, nella vita, in cui vai a cercarti le ossa. Lo recita l’antropologa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi (Frassinelli, 2016), leggendario studio sulla scoperta dell’identità. Favole e racconti archetipici, simili in tante parti del mondo, sono atti iniziatici, quindi viaggi.
Azzorre è il diario di un viaggio sacro.
“8 febbraio 1989.
Un aereo sorvola l’oceano. È partito da Bergamo, diretto a Punta Cana. L’equipaggio si prepara a fare scalo alle Azzore, sull’isola di Santa Maria. Alle 13.08, ora locale, un boato. L’aereo si schianta contro il versante di una montagna. Niente fiamme. Nel bosco cala il silenzio. 144 persone perdono la vita, io perdo mio padre.”
Il libro è scritto con grazia profusa e armonia implosa. Esploderà la commozione nel lettore che seguirà il viaggio di Cecilia Giampaoli a Santa Maria, la piccola isole delle Azzore dove suo padre non è mai atterrato.
L’autrice racconta la sua storia. Era suo padre davvero. Aveva sei anni quando la madre sentì la notizia, e cominciò a tremare. È stata una tragedia di cui si è molto parlato. Una serie di errori umani, di insostenibile leggerezza, così come sono tutti i nostri più grandi errori.
Trentuno anni: è tempo per entrare nell’inferno con zaino e telecamera, e trasformarlo. Cecilia atterra sull’isola della tragedia. Vuole toccare la montagna che ha spaccato l’aereo. Vuole trovare qualsiasi cosa il destino le metterà davanti. E poiché il viaggio è sacro, gli incontri sono tutti straordinari.
“Ho la sensazione che potrei restare seduta qui e sarebbe questa storia a trovare me.”
Risposte, domande, comprensioni. L’ineluttabile è l’esperienza più insopportabile che prima o poi busserà alla nostra porta. Tutta la vita ci chiediamo chi saremmo, se non fosse accaduto quello che ci ha spezzato. Tutta la vita cerchiamo di riparare. O forse, semplicemente, tutta la vita cerchiamo.
L’autrice è un’artista. Si occupa di arti visive, inventa, compone linguaggi espressivi con sapienza ed esperienza. Si avventura su ponti impervi, stavolta, con i muscoli delle gambe.
“Non ti serve cercare tuo padre tra i documenti e le immagini di un archivio, non lo ritroverai in quei resti spezzati”. Questo le scrive la madre amorevole, preoccupata. Ma tra le righe leggiamo l’inversione.
“Grazie che lo fai anche per noi, che tutti i giorni, ancora, pensiamo di vederlo tornare”.
Giampaoli si muove tra improvvisazione e disciplina. Incontra molte persone e non c’è spazio per i convenevoli. Loro hanno visto, hanno sopportato la puzza del bosco, hanno raccolto morti scomposti, hanno conservato pezzi dell’aereo. Anche loro sono stati sconvolti per sempre. Ogni testimonianza è preziosa. Giampaoli ha una potente capacità di dare corpo alle immagini, scolpite nelle parole come forme vive. Poesia e realtà sono così ben mescolate da diventare corporee. Cecilia Giampaoli sa scrivere, sa dipingere e sa cantare. C’è un equilibrio nobile tra queste forze, mai esibito. Tanto drammatica la storia, tanto asciutta la voce, che risulta intonatissima. Esperta la mano nell’uso del bulino, con cui scava e sottrae.
“Soffia un vento gelido.
Nonostante il chiarore della luna, il cielo da qui fa paura – non è piatto come appare dall’Italia, non sembra la carta stellata del presepe della zia. Sono su un’isola in mezzo all’oceano sconfinato, che rispetto al cielo è piccolo anche lui. Mi siedo sul ciglio della porta. La montagna incombe di fronte alla casa nel buio.
Sono un’isola anch’io. Che vuoi che importi agli altri della mia storia?
Mi alzo, torno dentro, chiudo la porta e mi stendo sul letto. Ho una mappa del cielo con me. Non sono sicura di saperla leggere, ma ci provo. A guardare l’universo da qui sembra quasi di poterlo capire”.
Il viaggio è strutturalmente sorprendente. Cecilia affronta la salita verso la montagna, ascolta tante diverse verità, subisce l’oltraggio di un responsabile della torre di controllo che rifiuta di incontrarla, si avventura per strade impervie, si mette in pericolo, si salva.
I dialoghi sono schegge di vetro. Trasparenti, taglienti. L’ultimo, con una persona chiave della tragedia.
Infine un congedo.
“Ogni cosa che non ti ho detto è una biglia in bocca. Batte sui denti e sul palato. D’acqua le cose che avresti detto tu, ferme da sempre in bottiglie di vetro. Mi vuoto oggi e le verso, perché tornino come piccoli fiumi al mare.”