Tra i personaggi che più hanno suggestionato l’arte tardo-novecentesca occidentale spicca il nome di William Burroughs. La sua pirotecnica e drammatica biografia, gli esperimenti in ambito narrativo, pittorico, discografico, esistenziale, l’attività di performer, i saggi e le interviste, l’aura di guru che lo circondava: tutto ciò ha impollinato la vita e la produzione di un gran numero di creativi, nei campi più disparati.
I tempi erano ormai maturi per realizzare una sintesi critica di questa pervasiva presenza, e finalmente è apparso un libro che prova a sistematizzare l’ascendenza dell’opera e della figura dell’artista di St. Louis, in particolare sull’eterogenea galassia della musica rock: William Burroughs e il mito del rock’n’roll, di Casey Rae, pubblicato da Jimenez Edizioni.
L’autore parte dall’assunto che “la musica del Ventesimo secolo e oltre debba parecchio ai metodi di Burroughs, e alla sua visione del mondo”. La sua poliedrica personalità è stata infatti un magnete per gli artisti, quasi sempre più giovani di lui. Rae lo considera una specie di “agente clandestino”, una “figura spettrale” che ha “infestato la cultura underground” e che ha avuto una parte attiva nello sviluppo del rock’n’roll. La sua scrittura e l’immaginario inquietante che la sostiene, l’attitudine antisistema, il vissuto anticonvenzionale hanno trovato terreno fertile in personaggi del calibro di Paul McCartney, Mick Jagger, Bob Dylan, David Bowie, Lou Reed, Frank Zappa, Iggy Pop, Patti Smith, Laurie Anderson, Kurt Cobain e numerosi altri. Con l’enorme impatto avuto su costoro, Burroughs ha “contribuito ad accelerare un’evoluzione sonora che ancora oggi si riverbera su continenti ed epoche”, a oltre vent’anni dalla morte.
Per dimostrare questa tesi, l’autore ripercorre le vicende di alcuni musicisti iconici che lo incontrarono o con lui collaborarono, inframmezzandole alla biografia di Burroughs, una modalità che gli consente di esplorare un ampio ventaglio di generi, concetti, idee, metodi, ossessioni legate alla sua figura: cinema, teatro, pittura, musica elettronica, hip hop, punk, heavy metal, cultura della droga, occultismo, media, distopia tecnologica. Il risultato è un’analisi ricca di storie e aneddoti, ammirevole per la padronanza con cui si espone una materia incandescente. Burroughs è stato infatti un personaggio complesso e contraddittorio, in continua mutazione, che ha vissuto una vita di ricerche e sperimentazioni con l’intento di trasformare se stesso e il mondo circostante. Ciò fa di lui una sorta di “codice cifrato, un puzzle da decifrare”, ed è lodevole il tentativo di Rae di scavare sotto l’aspetto pubblico per portare alla luce la vera identità dell’uomo, coadiuvato in questo dal contributo di alcuni amici che gli furono molto vicini, da lui intervistati.
L’autore segue cronologicamente gli spostamenti di Burroughs, notando che, ogniqualvolta si fermava in qualche posto nel suo girovagare per il mondo, i suoi “covi” divenivano fecondissimi luoghi d’incontro di esploratori e creativi a vario titolo impegnati in audaci escursioni ai confini della creatività (anche al limite della sanità mentale). Sul finire degli anni Cinquanta si stabilì a Parigi, alloggiando in una topaia passata alla storia come il Beat Hotel, che divenne raduno di figure di primo piano del movimento Beat e dell’underground parigino. Fu lì che cominciò a utilizzare il cut-up (tecnica attraverso cui un testo, un film o un frammento sonoro preesistente viene tagliato in più parti e poi riassemblato) insieme al geniale pittore Brion Gysin. Negli anni Sessanta si trasferì a Londra e cominciò a lavorare sui cut-up automatizzati, usando gli elementi casuali anche negli esperimenti sonori, condotti utilizzando registratori a bobina messi a disposizione da Paul McCartney, che spinsero i Beatles all’utilizzo di “suoni trovati” e cut-up su nastro in dischi seminali quali Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (dove Burroughs appare in copertina) e il White Album. Anche David Bowie incontrò Burroughs e iniziò a usare il cut-up nei suoi lavori: il musicista inglese ne ha sempre riconosciuto l’apporto ai suoi progressi artistici ed estetici.
Nella metà degli anni Settanta Burroughs tornò a New York e si insediò in un ex spogliatoio della YMCA privo di finestre ribattezzato “il Bunker”, nell’allora degradato quartiere della Bowery, che attirò i protagonisti dell’emergente scena punk: Patti Smith, Chris Stein e Debbie Harry dei Blondie, Joe Strummer dei Clash e Richard Hell dei Voidoids. Lì accolse Lou Reed, il quale aveva per lo scrittore più trasgressivo della Beat generation una vera e propria ossessione, tanto da saccheggiarne i libri per i suoi testi.
A riprova della centralità di Burroughs nell’immaginario dell’epoca, nelle pagine del libro si ricostruisce un evento tenutosi nel 1978, la Nova Convention, in cui una congrega di musicisti, scrittori e artisti celebrò il suo ritorno negli Stati Uniti. Nell’Entermedia Theater di New York Frank Zappa lesse uno dei frammenti più celebri del Pasto nudo, la routine del “Buco del culo parlante”. Patty Smith si cimentò in un memorabile reading accompagnata dal suo chitarrista, Lenny Kaye, Laurie Anderson si spinse verso territori più sperimentali ricorrendo a voci pitchate e all’elettronica minimale, mentre Philip Glass mandò in visibilio i presenti con una sua composizione ancora inedita, “Einstein on the Beach”. Nell’after party si esibirono i Suicide, i Blondie, i B-52 e il chitarrista e mente dei King Crimson Robert Fripp. Si è percorsi da un brivido nel rievocare la scena artistica di quarant’anni fa di cui, evidentemente, Burroughs era in qualche modo l’epicentro.
Il suo influsso sul mondo della musica non si attenuò neanche dopo il trasferimento a Lawrence, in Kansas, nel 1981. Quello stesso anno i suoi primi esperimenti di spoken word e tape splicing furono raccolti in disco, e in un altro collaborò con il poeta performativo John Giorno e con Laurie Anderson. Nell’ultimo decennio di vita Burroughs ospitò nel suo bungalow rosso e collaborò con Kurt Cobain, componenti dei Sonic Youth, dei R.E.M., dei Ministry, e contribuì a numerose produzioni musicali e video, tra cui spicca il testo di The Black Rider, una collaborazione teatrale con Robert Wilson e Tom Waits, pubblicata anche come album solista di quest’ultimo (dove Burroughs interpreta lo standard “T’ain’t No Sin” con la sua voce strascicata e stridente).
Anche la sua nota passione per il paranormale ha fatto da calamita, soprattutto per gli artisti interessati all’occulto come Genesis P-Orridge (fondatore dei Throbbing Gristle e degli Psychic TV, decano dell’“occultura” nonché “tenace paladino della visione burroughsiana”), Chris Stein dei Blondie, John Balance e Peter Cristopherson dei Coil. Jimmy Page trascorse ore a discutere con Burroughs delle potenzialità soprannaturali della musica, Dylan, anch’egli utilizzatore del cut-up, lo inseguì a lungo prima di incontrarlo in un caffè del Greenwich Village, all’inizio del 1965, per poi riemergere al Newport Folk Festival nelle vesti di visionario dagli occhi spiritati, accompagnato da una band elettrica e “rumorosamente eretica”.
Ma, al di là delle collaborazioni e delle amicizie, le influenze di Burroughs nell’universo rock sono davvero trasversali. Moltissime le band che hanno incorporato le frasi dei suoi romanzi in titoli e testi di canzoni. Gli Steppenwolf, ai quali viene attribuita l’introduzione in ambito musicale del termine “heavy metal”, presero in prestito proprio da lui quell’espressione. Gli Steely Dan devono il nome a un futuribile dildo menzionato nel Pasto nudo, e da invenzioni burroughsiane traggono il loro i Soft Machine, i Nova Mob, i Mugwumps e molte altre. Come Lou Reed, Iggy Pop e Patti Smith hanno letteralmente copiato da lui interi versi delle loro canzoni, i Duran Duran tentarono di realizzare un lungometraggio a partire dal video di Wild Boys, il cui titolo era tratto dall’omonimo romanzo di Burroughs, gli U2 hanno utilizzato video realizzati con il cut-up nei loro imponenti tour globali, e nel 1997 sono andati a scovare il loro idolo per coinvolgerlo nel video di “The Last Night on Earth”, la sua ultima apparizione filmata. E si potrebbe continuare.
Oggi l’influsso di Burroughs sulla scena musicale appare un po’ meno evidente. In realtà, esso va ben oltre la sua opera, poiché riguarda il metodo stesso utilizzato per crearla. I suoi esperimenti di hackeraggio della realtà, il lavoro su media ricombinanti – testi sottoposti a cut-up, i “suoni trovati”, il tape splicing – diventano la lingua franca delle produzioni sonore sperimentali negli anni Novanta, e lo sono tuttora, con la diffusa pratica del remix. Ma la musica rappresenta solo la punta dell’iceberg, poiché l’impatto di Burroughs copre l’intero spettro dei popular media – letteratura, cinema, fumetti, videogiochi, lo stesso Internet. Del resto, non solo Burroughs aveva previsto il nostro sempre più caotico presente e il nostro incerto futuro, ma potrebbe addirittura aver contribuito a innescarlo. Basti pensare alle piccole unità informative che prendono il sopravvento sulla nostra coscienza e che definiamo “virali”, un termine cardine nell’universo di Burroughs, il quale aveva predetto un futuro in cui le menti sarebbero state letteralmente infettate da “minuscole unità di immagine e suono” distribuite alle masse per via elettronica.
Insomma, come scrive Casey Rae, “Non appena ci si mette a cercare, si scopre che Burroughs è ovunque”. Non a caso a Tangeri lo chiamavano “El Hombre Invisible”.